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La lunga escursione

In qualche modo doveva essere il giro dei giri, oltre venti chilometri da consumare in un solo giorno, dal passo dell’Incisa sino al passo del Bocco e ritorno.
L’idea mi era venuta lo scorso anno quando con Alberto, Andrea e altri amici eravamo andati alla Malga Zanoni.
Lungo il sentiero avevo visto le indicazioni, ben due percorsi diversi, che indicavano la via per il passo del Bocco e mi era venuta voglia di percorrere questo sentiero.
Dopo una settimana di astinenza da escursioni, decido che è arrivato il momento.
Propongo l’escursione a Cioppi ed Andrea: il primo declina l’invito, il secondo accetta.
Con Andrea ci incontriamo in piazza alle otto e partiamo immediatamente alla volta dell’Incisa, mt 1471, da dove parte il nostro sentiero.
Quando arriviamo a destinazione dobbiamo tornare ad Ascona per un mio problema personale e, colmo della sfida, mentre sostituisco la maglietta sento un dolore tremendo alla spalla dove mi ritrovo una lacerazione. Cosa è stato? Ancora non lo so, ma il dolore è stato terribile ed i segni evidenti.
Torniamo ad Ascona con gran sorpresa dei presenti, sistemo ciò che ho da sistemare e ripartiamo. Sia verso Ascona che nel ritorno verso l’Incisa guida Andrea: che sballo la Sedici. Concordo o come dicono a Roma, me cojoni.
Alle dieci siamo finalmente pronti per la partenza; nel frattempo sono arrivate un po di auto, ma sono certo che si dirigeranno tutti verso il Penna o l’Aiona.
Imbocchiamo il sentiero già descritto nella gita dello scorso anno alla Malga Zanoni: una veloce discesa tra i faggi e dopo una curva il primo ruscello, tristemente asciutto, niente foto.
Quando arriviamo al Mare de Prie incontriamo alcuni escursionisti, una coppia di fidanzati che arrivano dalla Malga di cui accennato ed un signore con due ragazzine, forse le nipoti.
In prossimità del secondo ruscello che taglia il sentiero mi fermo a fare qualche scatto all’acqua, ma le immagini non mi soddisfano e ripartiamo. Dopo trecento metri mi accorgo di avere dimenticato il bastoncino. Torno indietro, non lo vedo, arrivo al Mare de Prie, ritorno indietro e finalmente lo vedo. Per fortuna che venerdì 17 era ieri!
Raggiungo Andrea poco dopo la fontana del Becio e ripartiamo.
Il tempo è infame, coperto e quando arriviamo al passo dei Porcelletti, mt 1467, iniziano a scendere le nuvole, ma il sentiero è più che visibile.
Naturalmente evitiamo di seguire il percorso dell’Alta Via che ci obbligherebbe a scendere il passo della Scaletta in discesa e proseguiamo su questo sentiero alternativo.
Superiamo la deviazione per Prato Mollo, la roccia dei Porcelletti e la deviazione per la Malga Zanoni ed iniziamo la scoperta di un nuovo sentiero.
Dopo i primi tornantini, incontriamo l’ultimo escursionista di giornata, non particolarmente loquace, ma pazienza. Il sentiero attraversa velocemente questa valletta in fondo alla quale attraversiamo un ponticello in cemento sul rio Berone, superato il quale arriviamo al passo della Scaletta, mt 1263.
Dopo una breve discesa rientriamo nel bosco dove troviamo delle indicazioni che obbligano gli escursionisti provenienti dalla direzione opposta a seguire un altro percorso, ma il motivo non è chiaro.
A parte la nebbia che è scesa fitta, il cammino è gradevole, la temperatura fresca, il panorama praticamente nullo. Dopo aver costeggiato il monte Rocchetta, percorriamo il sentiero alle pendici del monte Pertusa. Dopo una curva ci troviamo di fronte una mandria di mucche che ostruiscono il passaggio e occupano l’unica fonte di questo tratto di percorso. Le aggiriamo in basso e ripreso il cammino iniziamo a sentire dei cani abbaiare. Alzo lo sguardo e sui pascoli vedo un gregge di pecore sorvegliate da due maremmani. Ad Andrea consiglio di proseguire e non guardarli ed in breve siamo sulla sella che porta al monte Ghiffi.
A questo punto siamo di fronte ad una scelta: proseguire sull’Alta Via o svoltare sulla deviazione alla nostra destra e così è.
Dopo poche decine di metri affrontiamo delle scalette ricavate nel terreno ed in breve siamo sulla provinciale che da Borzonasca porta a Prato Sopralacroce ed al passo del Bocco: un cartello invita gli escursionisti a percorrere il sentiero sul quale siamo appena transitati invece di quello che porta alla Malga di Vallepiana a causa della presenza di cani antilupo, in pratica quelli che abbiamo appena visto.
Per arrivare al passo del Bocco, mt 956, ci dividono quasi quattro chilometri privi di interesse o della minima vista. Mentre stiamo arrivando al rifugio dove abbiamo prenotato il pranzo cadono le prime gocce di pioggia, ma ormai ci siamo.
Ci accomodiamo al tavolo, mangiamo un piatto di arrosto con patate e ripartiamo, ma piove e dobbiamo attendere: il temporale passa in fretta, nel frattempo abbiamo tirato fuori dagli zaini k-way, poncho e protezioni e appena cessa di piovere partiamo.
Per Andrea il tratto sull’asfalto è un tormento, questione di tempi o di digestione, una sofferenza, ma in qualche modo riusciamo a raggiungere l’inizio dello sterrato. Qui incontriamo tre ragazzi che ci dicono percorrere l’Alta Via, chiediamo loro se ci sono ancora i cani, ma non li hanno visti ne sentiti, meglio, saluti di rito e ognuno per la sua strada.
Nel frattempo il tempo va migliorando ed una volta superata la prima salita e ricongiuntici con il percorso dell’Alta Via possiamo godere del panorama perduto nelle nebbie del mattino: non è apertissimo ed il Penna viene coperto di tanto in tanto dalle nubi, ma la vista è suggestiva. Andrea ha ripreso a camminare con regolarità ed in breve arriviamo ai piedi della Scaletta che evitiamo nuovamente per riprendere il sentiero percorso in mattinata. Superato il ponticello sul rio Berone,  Andreasi imballa nuovamente, ma è anche vero che abbiamo percorso oltre diciassette chilometri. Gli suggerisco di non fermarsi, di proseguire con calma, ma di non fermarsi e piano piano si riprende. Una volta superato il passo dei Porcelletti, il sentiero finalmente spiana e può rifiatare. Arrivare all’auto è questione di poche decine di minuti.
Sono quasi le sei del pomeriggio quando arriviamo al passo dell’Incisa dove troviamo due conoscenti che ci chiedono da dove arriviamo: quando sentono il nostro tour sgranano gli occhi e ci fanno i complimenti. Meritati.

Le cinque cime, pt 1

Sabato di inizio giugno: piano piano si torna a respirare aria di libertà, ci sono ancora restrizioni, ovvio, ma il poter circolare liberamente è già positivo.
Dopo la lunga camminata della scorsa settimana in compagnia di Gianluca, decido di farne una in solitaria.
Lascio Ascona poco dopo le otto, ma nella mia testa non so dove andare di preciso: Penna, Aiona, non ne ho idea, poi quando arrivo a Pievetta mi appare il Maggiorasca e i miei dubbi si dileguano.
Sono le otto e mezza quando posteggio l’auto nel piazzale superiore a Rocca d’Aveto, ci sono solo la mia Sedici ed un auto posteggiata all’ombra dei faggi: il mio progetto è quello di salire al Prato della Cipolla e da li al Maggiorasca e quindi al Bue per tornare poi all’auto.
Avvio la app e parto. Sono certo di averlo già scritto, ma il risseou, ciottolato in italiano, che hanno fatto qualche anno fa è davvero terribile e brutto, non discuto la sua utilità, ma fa male alla vista e alle gambe: per assurdo, pur essendo uguale, quello in cima al Maggiorasca è meno peggio.
Discussioni più o meno utili a parte, la salita è piacevole, il passo è buono e la temperatura gradevole: una volta riempita la borraccia non faccio alcuna sosta, neppure per le foto, d’altronde la vista salendo è quella che è. La prima fotografia la scatterò alla moggia che si trova in cima alla salita.
Attraverso il Prato della Cipolla con il rifugio ancora chiuso e una volta transitato sotto la seggiovia malinconicamente ferma intravedo una figura che mi precede lungo la salita.
Lungo la pista di sci scatto le solite immagini, simili, ma non uguali, a quelle scattate in passato. Una volta arrivato alla sella tra le due vette più alte del nostro Appennino, mi fermo qualche attimo a rifiatare. Si, è una goduria. La gita della settimana scorsa è stata piacevole, soprattutto per la compagnia ed il pranzo, ma l’idea di avere una vetta da raggiungere è tutta un altra cosa.
Riprendo il cammino dopo un paio di minuti di sosta. Mentre salgo lungo il vecchio risseou nel bosco, sento i passi dell’altro escursionista che percorre la scorciatoia che transita appena fuori dalla faggeta e con il quale mi incrocio terminato il primo tratto di salita. Mentre lui prosegue il cammino, io mi fermo a fare qualche scatto per raggiungerlo poi ai piedi della statua della Madonna di Guadalupe che sovrasta Santo Stefano.
Scambiamo qualche parola: è un signore sulla settantina, viene dalla Fontanabuona e deve essere anche un po sordo perché ho l’impressione che non ascolti tutto ciò che gli dico, ma non importa. Mentre lui riprende il cammino io mi fermo ancora qualche minuto a godere della ritrovata solitudine, si, lo ammetto, sono un fautore del distanziamento sociale (continua)

L’ultimo ricordo, prima dei prossimi

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto e attuali conclusioni…
Si, se avessi previsto tutto questo, cosa avrei fatto? Se avessi saputo di restare chiuso per giorni, settimane in casa, forse sarei rimasto ad Ascona, magari mi sarei fatto qualche giorno di quarantena, avrei bruciato un po di giorni di ferie, ma sarei libero, felice, nel luogo che amo, nei luoghi che amo. Invece sono qui, in città, chiuso come tutti nella prigione che ci siamo costruiti, che ci protegge dal male, ma ci allontana, dalle nostre vite, dai nostri desideri, si, è un periodo soltanto, ma ogni attimo è unico, irripetibile, questo è il fatto, ogni minuto, ogni attimo che perdiamo è perso, per sempre. Non voglio recriminare o piangermi addosso e visto che tutti sperano, spero anch’io, per la salute dei miei cari, la mia, quella dei miei amici, per tornare a vivere la mia vita e dopo un mese che non scrivo, è venuto il momento di ricordare l’ultimo momento di libertà, di felicità, di felice solitudine, prima di altri momenti.
E’ il 22 febbraio, un sabato. Sono salito in valle in mattinata, il tempo per le solite faccende e poi finalmente il tempo di fare un’escursione, una nuova escursione, un nuovo sentiero da scoprire.
Con la macchina mi dirigo verso Alpepiana dove imbocco la strada che porta a Lovari. Voglio tornare sul Montarlone, a distanza di due anni e mezzo dalla mia salita in solitaria, è un luogo che amo, forse perché poco frequentato, forse perché da li si vede Ascona. Questa volta però decido di salire dal sentiero che parte dalla piccola frazione di Rezzoaglio anziché dalla vicinale che porta al rifugio dei Prati di Foppiano.
Posteggio l’auto e scendo a fare due passi tra le case disabitate di questo piccolo borgo il cui nome prende origine da lupo come il monte che lo sovrasta, due passi di numero  visto che il paese è davvero piccolo ed in meno di un minuto il giro è finito.
Il sentiero parte appena prima di entrare in paese, sulla destra, due triangoli gialli. Una breve salita porta alla piccola chiesa di Lovari chiamata il Tempio della Fraternità, è una costruzione in muratura che risale all’inizio degli anni cinquanta. Naturalmente è chiusa, per cui spendo solo qualche attimo a fotografarla e proseguo.
Il primo tratto del sentiero è molto largo, in pratica è una carrareccia in falsopiano utilizzata per il taglio degli alberi, facile, poi arrivati ad una radura inizia il sentiero vero e proprio, non presenta punti di rischio, ma in alcuni tratti è poco visibile cosi come i segnali. Mi viene in soccorso la app che ho scaricato sullo smartphone da un paio di mesi e mi sta dando grandi gioie per la sua precisione.
Come ho scritto, siamo a metà febbraio e la temperatura è piacevole, quasi troppo, il sole è leggermente velato, l’aria tiepida. Attraversando piccole macchie di felci e boschi di faggi, il sentiero prosegue regolare nel suo dislivello sino ad immettersi dopo un’ora di cammino in una ampia carrareccia. I segnavia mi indicano di proseguire sulla mia destra, in piano, verso il rifugio dove con mio stupore arrivo dopo pochi minuti di cammino. Qui capisco che se esiste un sentiero che porta alla cima è poco visibile o addirittura da tracciare. Imbocco quindi la solita carrareccia percorsa nelle precedenti occasioni: dopo la prima salita, quando la strada spiana e svolta a sinistra, la app mi indica un fantomatico sentiero sul crinale in mezzo ai faggi e che mi porterebbe sulla sella ai piedi del monte, dove arriverò con meno fatica percorrendo la strada utilizzata nelle precedenti occasioni.
Proseguo quindi sulla carrareccia ancora per trecento metri e quando finalmente spiana nuovamente taglio fuori sentiero sulla mia sinistra per raggiungere la sella ai piedi del monte.
Come già detto, il sentiero qui non esiste e se esiste è poco visibile. Mi addentro nella faggeta mantenendo la linea del crinale: arrivato sotto al roccione utilizzato precedenza per molti miei scatti, lo aggiro alla sua destra per poi risalire a zig zag nei faggi. Finalmente sono in cresta, un paio di foto dal roccione e risalgo il crinale verso la vetta dove arrivo in pochi minuti.
C’è poco da fare, quella dal Montarlone è una delle viste più belle che si possano godere dai monti della valle, a mio giudizio gli è superiore solo quella del Penna. Dal monte del Lupo oltre a godere di un panorama sulla val Trebbia, si ha una visione alternativa della valle, si vedono praticamente il 90% dei paesi da Rezzoaglio a Torrio e tutte le sue montagne.
Dopo le solite fotografie ed essermi perso in questa fantastica vista, viene il momento di tornare indietro.
Per il ritorno decido di prendere la carrareccia che scende dal rifugio e utilizzata nelle mie precedenti salite, non è una grande idea, il sentiero dell’andata è sicuramente più suggestivo, ma mi va di cambiare. In mezzora arrivo al bivio per Alpepiana e Lovari, una volta sulla strada svolto a destra e gli ultimi chilometri verso l’auto sono lunghi, interminabili. Si, le strade sterrate non sono mai delle grandi idee. Adesso il sole è sceso e l’aria fresca, ma passo dopo passo arrivo finalmente all’auto e posso tornare a casa, ad Ascona. Stasera mi aspetta il compleanno di Tommy, sedici anni. Come posso mancare?

Primi pensieri di una nuova decade

Sono settimane, mesi che non scrivo i miei pensieri, le mie sensazioni: l’ultima volta è stata lo scorso settembre, si, è davvero troppo tempo anche perché le vecchie poesie,  i resoconti delle gite estive, le fotografie, per quanto parlino, poco contano con ciò che provo o ciò che sento.
Nel mentre non scrivevo, è terminato un altro anno, più che passato direi volato, come tutti quelli dai trent’anni in poi: se ci penso sto male, se ci penso l’orologio fa tic tac in maniera impressionante, troppo veloce, quasi drammatica.
Con la fine di un anno e l’inizio di quello nuovo è sempre tempo di bilanci, di buoni propositi, ma il bilancio è quello che è e i buoni propositi è meglio lasciarli perdere o farli fare agli altri, è solo un modo di prendersi per il culo da soli e non è il caso, ci penso già da solo.
Dal fine settimana di Ognissanti ho centellinato le mie visite in valle, in due mesi sono salito si e no un paio di volte, giusto per controllare casa e cenare con gli amici, facendo ritorno a Genova nel cuore della notte con annesse avventure che eviterò di raccontare.
Sono poi tornato in valle per festeggiare Capodanno, sempre con gli amici, per la seconda volta di seguito ad Amborzasco, questa volta in casa di Gianluca, una serata piacevole con una bellissima compagnia.
Nelle settantadue ore del mio soggiorno ad Ascona mi sono ritagliato il tempo di salire sul monte di Mezzo ad ammirare le nuvole che celavano il fondovalle da Boschi sino a Bobbio e sicuramente oltre, sono salito sul Crociglia a salutare la statua dell’arcangelo e a contemplare il magnifico panorama che andava dalle alpi Marittime sino alle Tridentine ed infine sono salito sul dio, sul monte Penna, la mia prima salita invernale sul dio, una gita tranquilla, senza ansie, in compagnia dei miei pensieri, dei miei dubbi, della mia malinconia.
Sono salito in un pomeriggio caldo, nel silenzio del bosco, nella luce che filtrava tra gli alberi e scaldava le mie ossa e mentre salivo i miei pensieri, i miei dubbi, la mia malinconia si facevano leggeri per lasciare spazio alla pace, ad una pace che solo la bellezza dei monti che amo riesce a donarmi. Sono arrivato in cima circondato da tanta bellezza, la vista che si perdeva dalle Alpi al mare, dalla maestosa imponenza del monte Rosa sino alle cime dei monti della Corsica e a quella delle Alpi Apuane, solo un freddo gelido che picchiava oltre la cappelletta, ma preservava il resto della cima, stranissimo, e poi un mare di nuvole che eclissava agli occhi le valli del Ceno e del Taro, una visione dolce e quasi irreale per chi non l’hai mai vista e vissuta, una sensazione di pace, silenzio. Ciò di cui avevo bisogno.

Il 2019 in 12 scatti

Escursione alla Malga Zanoni, pt 2

Terminata la sosta ripartiamo alla volta della Malga che non dovrebbe essere cosi lontana.
Luciano ed io ci attardiamo a fare ancora qualche foto e raggiungeremo i nostri compagni al rifugio.
Adesso siamo fuori dalla faggeta, il sentiero corre lungo il fianco della montagna, sul lato a valle, ma pure a monte, ci sono tratti con catena e ringhiera a proteggere il cammino.
Dopo una curva la vista si apre ulteriormente e ci appare finalmente la Malga: sulla sinistra ci sono il Bocco ed il Ghiffi, di fronte a noi i paesi della valle Sturla e possiamo immaginare il mare.
Quando arriviamo alla Malga i primi arrivati hanno già chiesto ai due gestori se si può mangiare qualcosa, l’accoglienza è tipicamente ligure, freddina, ma col passare dei minuti scopriremo delle belle persone, innamorate, appassionate del loro lavoro. Sostanzialmente il problema è che non abbiamo prenotato, ma qualcosa ci daranno comunque.
Una volta sbrigata la formalità del pranzo, scambiamo qualche parola con il cuoco, parliamo di funghi, dei lupi ed è così gentile da consigliarci il sentiero da percorrere per raggiungere Prato Mollo e da li il passo dell’Incisa.
Ci dice di evitare la prima deviazione sulla sinistra, ma di proseguire sino al primo ruscello, quello con la passerella per intenderci, e prendere il sentiero dei Carrelli.
Lo ringraziamo ed in breve siamo nuovamente in cammino.
Una volta arrivati al piccolo rivo facciamo una sosta di qualche minuto: i più temerari si tolgono le calzature per immergere i piedi nel laghetto.
Quando ripartiamo imbocchiamo il sentiero che ci ha consigliato il gestore: un primo passaggio tra i faggi, una piccola radura, un secondo passaggio tra i faggi e siamo sul crinale dove incontriamo il sentiero che partiva poco lontano dalla Malga.
Dopo una parte del percorso allo scoperto, ci addentriamo nel bosco di faggi, la prima parte non è particolarmente impegnativa mentre la seconda è un poco più ripida, ma il sentiero è sempre ben segnato.
Impieghiamo circa un ora ad arrivare sulla strada che da Bevena porta a Prato Mollo.
Adesso il nostro cammino è sulla carrareccia, sotto le nubi, con i tuoni del temporale che si odono in lontananza, costeggiamo la Pietra Borghese ed in pochi minuti siamo al rifugio. Entriamo praticamente tutti, chi per una bibita o un caffè, chi per andare in bagno, chi per riempire la borraccia. Io riempio la mia dal tubo del troppo pieno che fuoriesce dal terreno all’esterno del rifugio, qualcuno mi imita e viene redarguito pesantemente dalla moglie: ecco, queste sono le cose che mi fanno apprezzare il fatto di essere single.
Dopo la sosta riprendiamo la strada verso l’Incisa percorrendo la scorciatoia che porta ai Prati di Montenero, scorciatoia che non conoscevo e che ci evita tutto il percorso che va alla Spingarda e da li ai Prati.
La via del ritorno l’ho percorsa e descritta decine di volte: il passaggio nel circo glaciale, la salita verso i Prati di Cantomoro e tutto il tratto nel bosco.
Quando arriviamo all’ultima sella ci fermiamo per un ultima foto di gruppo con lo sfondo del monte Penna. Da qui al passo sono pochi minuti, la gita, bellissima, è finita, adesso dobbiamo solo riprendere le auto e tornare ad Ascona, tornare a casa.

Radici

E’ passato un mese dal mio ultimo articolo, quello in cui parlavo della gita sul Penna, delle mie sensazioni, del mio desiderio di vacanza, di come i miei monti sono i miei confini e al tempo stesso i miei limiti.
Dopo di allora ho continuato a salire in valle, a salire sui miei monti, prima il Carevolo e poi il Maggiorasca ed il Bue, ho chiuso e stampato la seconda edizione del libro sulla storia di Ascona e vi assicuro non è stato semplice, sono stato a Gambaro ad ascoltare il mio amico Pierluigi e come sempre sono rimasto a bocca aperta sulle sue disquisizioni sulla vita delle nostre genti nel Medioevo.
Si, sono stato un pochino impegnato, tanto da rinunciare alla vacanza che desideravo fare.
E poi c’è stato l’incontro che definirei della vita, l’incontro con le cugine provenienti dal Cile, Cecilia e Angelina, le nipoti di zio Angelo, fratello di mia nonna Lina, partito per il Cile all’età di 23 anni e mai più tornato in Italia.
Se ci sono dei meriti di FB, del sito del libro delle facce, uno è proprio questo, quello di mettere in contatto le persone, di farti ritrovare amici lontani o di farti trovare parenti di cui non conoscevi l’esistenza, ma che fanno parte della tua famiglia, che sono sangue del tuo sangue, che sono parte di te e questo è ciò che ho provato nell’incontrare Cecilia ed Angelina.
Con Angelina ci siamo conosciuti, incontrati anni fa su FB, sul libro delle facce. Ci siamo scritti, scambiato immagini, ma mai nulla d’importante. Poi due mesi fa mi ha scritto dicendo che sarebbe venuta in Italia, con la sorella, il cognato e la cognata, sarebbe venuta e avrebbe avuto piacere di visitare Ascona, il luogo dove era nato il nonno. La notizia mi ha fatto piacere, ho dato la mia disponibilità e ho aspettato, senza particolare attese.
Poi venerdì 12 luglio sono arrivate e solo incontrandole ho capito ciò che provavano, il loro desiderio di conoscere il luogo degli avi, di vedere il paese dove nacque nonno Angelo, dove crebbe, di camminare nelle vie dove trascorse la sua gioventù, ho provato le loro emozioni o forse non le ho provate abbastanza, ma penso di esserci arrivato vicino, molto vicino.
Siamo entrati nella chiesa del paese che è la stessa di allora, la statua della Madonna Addolorata che ci protegge e quella di San Bernardo dietro all’altare che osserva chi entra, hanno presenziato alla Santa Messa e hanno preso la comunione, siamo saliti al cimitero che è sempre quello, sono forse cambiati coloro che vi riposano, ma è sempre la stessa salita, dura, irta, alla fine della quale c’è sempre la stessa sensazione di dolore, di addio.
Hanno toccato le tombe dei fratelli e delle sorelle dello zio, del loro nonno e sono certo che avranno detto una preghiera, avranno chiesto l’aiuto dei nostri avi sui loro passi.
Hanno visitato la casa dove visse Angelo, dove maturò l’addio, dove abbracciò i genitori per l’ultima volta sapendo dentro di se che forse non sarebbe più tornato.
Hanno dormito in paese, non a Santo Stefano d’Aveto, non in albergo, ma in una casa del paese, poco lontano dalla casa del nonno, si sono svegliate col suono delle campane, hanno aperto le finestre e hanno respirato l’aria che respirava il nonno, si sono riempite gli occhi della stessa vista, di quella bellezza che forse il nonno non riuscì mai ad apprezzare: per sessanta ore sono state asconesi al 100%
Con loro, come ho scritto, c’erano il marito e la cognata di Cecilia e anche con loro è stata la stessa emozione, la sensazione di essere con persone di famiglia, del tuo sangue, con persone che fanno parte di te.
Quello che è successo poi nei due giorni e mezzo in cui siamo stati insieme non ha importanza e sono sinceramente fatti miei, quello che conta è avere riavvolto il filo del tempo, quel legame indissolubile che ci lega.
Nel 1972 Francesco Guccini cantava dell’importanza del proprio passato in una canzone dal titolo Radici e nelle cui parole scritte oltre quarantanni fa sono racchiusi i miei sentimenti e quelli delle mie cugine:
La casa sul confine della sera, oscura e silenziosa se ne sta, respiri un aria limpida e leggera e senti voci forse di altra età. La casa sul confine dei ricordi, la stessa sempre, come tu la sai e tu ricerchi la le tue radici, se vuoi capire l’anima che hai. La casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta e provi un grande senso di dolcezza”.

E tanta strada per vedere un sole disperato

Primo sabato di giugno, finalmente è arrivata l’estate. Sono arrivato in paese ieri sera, una buona mezzora di coda in autostrada, il passaggio sulla Forcella prima che cadesse una frana e ne bloccasse il transito, un salto a Scabbiamara a comprare una forma di Cabannin e una pizza a Villanoce. Alla fine una serata niente male visti i presupposti.
Mi sveglio presto, intorno alle sette. Il tempo di fare colazione e sono gia in auto, direzione foresta del Penna, ho voglia di camminare, di respirare, di vedere cose belle.
Mentre viaggio verso la mia destinazione penso a quanto vorrei fare una vera vacanza, tornare magari in Alto Adige a vedere nuovi posti, fare nuove escursioni: in valle le ho fatte quasi tutte, alcune volte mi sento come Vecchioni quando in Stranamore cantava  “Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione, e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione perché più in là non si poteva conquistare niente: e tanta strada per vedere un sole disperato, e sempre uguale e sempre”, già, questo è quello che provo io, qui ho visto quasi tutto e anche se questo è il mio mio mondo, il mio piccolo angolo di paradiso, la valle poi finisce, oltre questi monti c’è il mondo vero e c’e tanto da vedere, da scoprire, cosi come  è altrettanto vero che ogni giorno, ogni raggio di sole non è mai uguale al precedente, ogni momento ha un sapore diverso, anche in valle.
Quando arrivo alle Casermette ha fine il mio viaggio e hanno fine i miei pensieri, posteggio l’auto dove inizia la carrareccia per l’Incisa e parto.
Sulla strada sterrata non incontro nessuno, un auto alla Segheria e nulla più, nessuno neanche lungo la salita, incontrerò solo un ragazzo lungo la via del ritorno.
Come nelle ultime gite al Penna provo a non fare soste lungo la salita, è un mio modo per testare la gamba e la gamba c’e, per fortuna. Mi fermo solo quando sono a 50 metri dalla vetta, ad ammirare il paesaggio, lo so che è il solito, ma è altrettanto vero che è sempre una grande emozione, sono sul Penna, quello che gli antichi Liguri veneravano come loro dio.
Una volta in cima faccio qualche scatto, non la solita miriade, mi godo il panorama e l’aria fresca, osservo le imbarcazioni al largo della costa, vedo le montagne ancora innevate del Piemonte e la solitaria ciminiera di Vado. La sosta non dura granché, devo fare ritorno ad Ascona per dare l’ultimo saluto a Piero, oggi ritorna a casa.
Una volta in paese faccio appena in tempo ad entrare in chiesa e la funzione è al termine, colpa mia, mi resta solo il tempo di salire al camposanto e restare sconcertato dall’ennesima prestazione di colui che dovrebbe curare le anime, ma questa è un altra storia e neppure una novità e non vale davvero la pena di raccontarla.

All the best, dal Gifarco a La Nave

All the best, dal Gifarco a La Nave

 

Salita alla Ciapa Liscia

Sabato di fine settembre, finalmente sono tornato in valle. Il fine settimana precedente ho fatto una scappata nel Vicentino, ospite di Stefania e Stefano, mi sono perso il boom dei funghi, ma me ne farò una ragione, a fatica, ma supererò questo choc.
Sono arrivato ieri sera, a distanza di quattro giorni dall’ultimo saluto a Enrico, U Treno, una delle ultime colonne del paese. Alle sue esequie c’era veramente tanta gente, mai vista una cosa simile, si, direi che dai valligiani ha ricevuto il tributo che meritava.
Questa mattina mi sono alzato tardi, si fa per dire, sono le otto quando scendo a fare colazione, è una bella giornata, tiepida, in questa lunga estate senza fine.
L’ultima escursione l’ho fatta ad agosto, sul Carevolo, l’unica gioia di un estate travagliata, i problemi c’erano, ci sono e resteranno ancora per qualche tempo, meglio far buon viso a cattiva sorte: ora che ne conosco la natura, cerco di conviverci e adottare qualche minima contromisura.
Dicevo, è una bella giornata ed è pure l’ideale per fare due passi. Dove però? Mi mancano ancora alcuni dei punti fermi delle mie estati: il Ragola, il Monte Nero, l’Aiona, anche se ho avuto la fortuna di salirci con la neve.
Alla fine opto per la Ciapa Liscia, l’anello non è dei più lunghi e la vista sulla Valle Tribolata sarà un regalo alla mia giornata.
Lascio Ascona che non sono ancora le nove e in una trentina di minuti sono sul passo del Crociglia: non ci sono auto posteggiate, il vento che ha soffiato in settimana ha fatto desistere i fungaioli più incalliti.
In breve imbocco il sentiero, intravedo una coppia che scende verso la Rinazza, hanno il cestino in mano, ahi, forse ho parlato troppo in fretta.
Il primo tratto del percorso è un dolce saliscendi sul crinale che divide val d’ Aveto e val Nure sino a quando il sentiero non si biforca, un centinaio di metri e sono sul burrone della Rocca Marsa, si, sono queste viste, questi momenti che danno un senso a certi giorni. Poi ci sono anche altri momenti, ma sono anche altre storie.
Da questo momento in poi è un lungo susseguirsi di sguardi, sensazioni, fotografie, un recuperare i giorni perduti in agosto. Il sentiero corre sul ciglio dello strapiombo per entrare un paio di volte nel bosco e riuscirne. Quando arrivo nel punto più difficile, motivo per cui la FIE definisce il sentiero EE, incontro un escursionista che scende lungo il pendio, scambiamo un paio di parole e poi ognuno per la sua strada. Io salgo con attenzione, lentamente, cerco di non esagerare e con un minimo di fiatone arrivo sulla cima della Ciapa Liscia, la luce sulla val Nure non è delle migliori e così decido di raggiungere la cima della Roncalla, li c’è il panorama che voglio vedere, non molto diverso da quello che ha accompagnato il mio giro sino ad ora, ma più bello ancora.
La sosta dura una decina di minuti, una foto al Penna e non mi accorgo di perdere il paraluce della reflex. Me ne accorgo quando sono ormai sulla Ciapa Liscia, torno indietro, guardo a destra e sinistra, sull’erba mossa dal vento, ma niente, paraluce addio.
Riprendo mestamente il sentiero, dalla Ciapa Liscia scendo il versante sulla val Nure, una breve camminata nei faggi ed in breve arrivo al bivio, svolto a sinistra mentre a destra si va al Prato della Cipolla.
Meno di cento metri ed il sentiero scende a valle, un tornante dopo l’altro, il terreno sdrucciolevole mi ricorda di prestare attenzione, la vista non è delle migliori  ed è una buona scusa per allungare il passo. Arrivo ai piedi di una grotta che in poco tempo è diventata un luogo di culto, ma non ho la voglia ne il tempo per salirci, poi arrivo a congiungermi con il sentiero dell’andata, raggiungo e supero la coppia di fungaioli visti all’andata, nel cestino hanno qualche esemplare e neppure piccolo, fingo indifferenza, ma un po mi gira, poi arrivo sul passo, sono sudato e felice, come mi mancavano questi momenti.