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Le cinque cime, pt 2

Una volta ripresa la gita,  supero il signore fontanino lungo la discesa che conduce alla sella e mi dirigo verso il monte Bue.
La salita è sempre faticosa, ma camminare sotto questo cielo fantastico è bellissimo, peccato per le cupe nuvole all’orizzonte che viaggiano nella mia direzione.
Una volta arrivato in cima al Bue incontro altri due escursionisti, un saluto e scendo verso la panchina tanto cara a Lele: anche qui un paio di scatti e via, lungo la pista di sci che porta alla Cipolla.
Sul Groppo che domina il prato ci sono dei ragazzi che stanno facendo scuola di roccia, ottimi soggetti per qualche fotografia. Una volta arrivato al rifugio mi viene l’idea di allungare il giro al Groppo Rosso. Mentre percorro il tratto che va dalla Cipolla all’Astass incrocio almeno cinque o sei escursionisti. Arrivato al bivio per il piccolo rifugio cambio nuovamente idea e decido di allungare ulteriormente, il giro di oggi diventerà il tour delle Cinque Cime. Imbocco lo 001 e dopo qualche centinaia di metri entro nella faggeta ai piedi della Ciapa Liscia, la mia terza vetta di giornata. Un attimo di sosta a godere del panorama verso la Val Nure e mi dirigo immediatamente verso il monte Roncalla o Prato del Pero, come preferite.
Arrivo in pochi attimi, ci sono solo io, ai miei piedi la Valle Tribolata e la Ciapa Liscia, più lontano Torrio. Forse non ha la stessa vista a 360° del Montarlone, ma dalla Roncalla si gode di un panorama fantastico sulle valli circostanti e godo della vista, dell’aria, del vento, del sole, della mia ritrovata libertà, della mia momentanea solitudine.
Dopo la sosta, mentre mi appresto a riprendere il cammino, arriva una coppia di fidanzatini con i quali scambio qualche parola. Dopo averli salutati scendo verso la mia ultima cima di giornata, il Groppo Rosso.
Vorrei dirigermi verso la prima groppa, ma è occupata da tre o quattro gitanti, cosi mi accontento, si fa per dire, di salire sulla terza, quella che domina la Valle Tribolata.
Qualche minuto di sosta, le solite immancabili fotografie e devo prendere la via del ritorno: in pochi minuti sono all’Astass e in meno di mezzora sono all’auto per tornare verso casa.
Per essere la seconda escursione dopo il fermo forzato causa pandemia non è male, forse sono stato un poco ingordo a fare cinque cime in un giorno, ma in qualche modo era necessario per tornare a riappropriarsi della mia vita, magari forse solo del mio tempo e delle mie abitudini ed è quello che ho fatto.

Le cinque cime, pt 1

Sabato di inizio giugno: piano piano si torna a respirare aria di libertà, ci sono ancora restrizioni, ovvio, ma il poter circolare liberamente è già positivo.
Dopo la lunga camminata della scorsa settimana in compagnia di Gianluca, decido di farne una in solitaria.
Lascio Ascona poco dopo le otto, ma nella mia testa non so dove andare di preciso: Penna, Aiona, non ne ho idea, poi quando arrivo a Pievetta mi appare il Maggiorasca e i miei dubbi si dileguano.
Sono le otto e mezza quando posteggio l’auto nel piazzale superiore a Rocca d’Aveto, ci sono solo la mia Sedici ed un auto posteggiata all’ombra dei faggi: il mio progetto è quello di salire al Prato della Cipolla e da li al Maggiorasca e quindi al Bue per tornare poi all’auto.
Avvio la app e parto. Sono certo di averlo già scritto, ma il risseou, ciottolato in italiano, che hanno fatto qualche anno fa è davvero terribile e brutto, non discuto la sua utilità, ma fa male alla vista e alle gambe: per assurdo, pur essendo uguale, quello in cima al Maggiorasca è meno peggio.
Discussioni più o meno utili a parte, la salita è piacevole, il passo è buono e la temperatura gradevole: una volta riempita la borraccia non faccio alcuna sosta, neppure per le foto, d’altronde la vista salendo è quella che è. La prima fotografia la scatterò alla moggia che si trova in cima alla salita.
Attraverso il Prato della Cipolla con il rifugio ancora chiuso e una volta transitato sotto la seggiovia malinconicamente ferma intravedo una figura che mi precede lungo la salita.
Lungo la pista di sci scatto le solite immagini, simili, ma non uguali, a quelle scattate in passato. Una volta arrivato alla sella tra le due vette più alte del nostro Appennino, mi fermo qualche attimo a rifiatare. Si, è una goduria. La gita della settimana scorsa è stata piacevole, soprattutto per la compagnia ed il pranzo, ma l’idea di avere una vetta da raggiungere è tutta un altra cosa.
Riprendo il cammino dopo un paio di minuti di sosta. Mentre salgo lungo il vecchio risseou nel bosco, sento i passi dell’altro escursionista che percorre la scorciatoia che transita appena fuori dalla faggeta e con il quale mi incrocio terminato il primo tratto di salita. Mentre lui prosegue il cammino, io mi fermo a fare qualche scatto per raggiungerlo poi ai piedi della statua della Madonna di Guadalupe che sovrasta Santo Stefano.
Scambiamo qualche parola: è un signore sulla settantina, viene dalla Fontanabuona e deve essere anche un po sordo perché ho l’impressione che non ascolti tutto ciò che gli dico, ma non importa. Mentre lui riprende il cammino io mi fermo ancora qualche minuto a godere della ritrovata solitudine, si, lo ammetto, sono un fautore del distanziamento sociale (continua)

Un passo dopo l’altro

Domenica di inizio luglio: i temporali in settimana hanno abbattuto le temperature in maniera drastica, adesso è tutto un altro dormire.
Il paese è il solito affascinante deserto, poche anime, pochi villeggianti, tutti lo amano, ma non viene mai nessuno, il circolo perennemente chiuso. Punto.
L’ingombrante presenza del gruppo elettrogeno è ancora li, col suo fastidioso rumore, quante settimane sono passate ormai? Quattro, cinque? Il lavoro è finito, ma il gruppo rimane, misteri.
Ieri ho dato buca a Giorgio per salire all’annuale appuntamento ai Prati di Foppiano, peccato, il pollo alla piastra che fanno gli amici di Alpepiana è una vera squisitezza, oggi vorrei recuperare del sabato d’ozio, devo fare qualcosa, vedere qualcosa, fotografare qualcosa.
E’ una bellissima domenica di sole anche se intorno alle otto sul monte di Mezzo fanno capolino cupe nuvole provenienti da nord ovest.
Mi dirigo verso Santo e una volta a Pievetta mi appare il Maggiorasca, non ci sono ancora salito quest’anno, malgrado le nuvole sarà la meta della mia escursione.
Posteggio a Rocca, come abitudine, parcheggio superiore: c’è solo la mia auto ed un signore con un cane dall’aspetto feroce intento ai bisogni mattutini.
Cambio maglia e sono pronto, un bastoncino, lo zaino della macchina fotografica, una bottiglietta vuota per l’acqua e via.
Credo che l’inizio di questo sentiero sia quello che amo meno in assoluto tra tutti quelli che ho percorso, una dura salita in cemento e pietra, orribile, scriverei quasi senza senso, fastidiosa a salire e peggio ancora a scendere, ma c’è e non posso farci nulla.
Salgo lentamente, piano piano sto imparando, un passo dopo l’altro, verso la cima.
Nel bosco come al solito mi immergo in un altra dimensione, dimentico i casini, i problemi, si, solo pensieri felici, davvero un altro pianeta mentale.
In meno di mezzora sono in cima alla prima salita, prima del Prato della Cipolla supero una decina di escursionisti impegnati a decidere quale sentiero seguire, il rifugio è ancora chiuso anzi no, stanno arrivando le signore che mi danno il buongiorno, io proseguo verso la pista rossa che porta alla sella tra il Bue ed il Maggiorasca, questa si che è tosta. Sopra la mia testa una lunga sequela di nuvole, a pecorelle, ma per una volta il proverbio verrà smentito, oggi non pioverà, malgrado il cielo.
Sulla sella mi fermo a rifiatare qualche attimo poi riparto, in cinque minuti sono ai piedi della statua della Madonna di Guadalupe, penso che è dallo scorso agosto che non salgo qui, ma non è vero, vi ero tornato con Giampiero ad ottobre, da un altra via, dal sentiero che parte dal Tomarlo.
Ai piedi della statua ci sono due gitanti, marito e moglie, lui con reflex al collo continua a fare un infinità di scatti, in piedi, in ginocchio, sdraiato. La convivenza dura pochi minuti, poi spostano il loro set fotografico poco lontano, li supererò più tardi sulla salita del Bue.
La mia sosta dura una decina di minuti, non c’è una grande profondità nel panorama, per intenderci non si vede il mare, ma il Monte Rosa si, tra una nuvola e l’altra: quando arrivano altri due gitanti lascio la vetta io.
In meno di un quarto d’ora sono in cima al monte Bue: ai piedi della croce c’è una coppia, direi di miei coetanei. Mi chiedono se quello a destra è il Maggiorasca. Alla mia risposta iniziamo a fare due chiacchiere. Vengono da Cremona, lui in valle ci veniva da bambino, la valle è sempre bella, dice che qui è come se il tempo si fosse fermato, come nell’albergo dove hanno dormito, arredi anni sessanta, hanno fatto anche delle foto in bianconero per dare un tocco al loro soggiorno, a fare colazione erano in quattro con quattro camerieri ed un sacco di cameriere a fare pulizia nei corridoi e nelle camere. Wow, mica male.
La nostra conversazione dura qualche minuto poi ci salutiamo.
Scendo verso la Cipolla, faccio un salto alla panchina tanto cara ad un caro amico e poi sono al Prato, adesso ci sono sette otto persone, una decina le incontrerò nello scendere verso Rocca, non saranno tantissime, ma sono un segnale che almeno i sentieri dei nostri monti sono vivi, non i nostri paesi, quelli hanno un altro destino, ma sono altri discorsi, triti e ritriti, che non portano a nulla. Purtroppo.

Festa al Maggiorasca, pt 2

La prima persona che incontriamo è la sindaca in compagnia del fratello: una donna in gamba, con le palle come si usa dire, magari non sarà simpatica a tutti, ma sa gestire il Comune, la cosa pubblica, come nessuno. Salutiamo, qualche parola, poi ci mettiamo alla ricerca degli altri asconesi che arrivano poco dopo: Abi con moglie e figlia, Stefano con Simone e la Paoletta, moglie di Giampaolo, un bel pezzo di Ascona.
Pochi istanti e comincia la funzione celebrata da Don Ferdinando: resterà, partirà? Girano voci, tante voci. Se andrà via peccato, sarà una grossa perdita, per Ascona, ma non solo. Se resterà meglio per molti.
Ascoltiamo messa distrattamente poi ci accodiamo alla processione, siamo in fondo, i primi sono già ai piedi della statua della Vergine.
Una volta celebrata messa e processione si può mangiare, pranzo al sacco naturalmente: fa caldo, tanto caldo, non c’è la vista spettacolare di inizio settimana, ma merita comunque.
E’ l’una e mezza quando decidiamo di tornare indietro: ripeto, fa caldo, abbiamo partecipato, qualcuno vuole andare a vedere le auto da rally, a me basta tornare a casa, mi aspettano a Torrio per la serata.
Ci fermiamo al rifugio del Monte Bue per un caffè, incontriamo due signore che sfoggiano una maglietta con la scritta Castagnola, scambiamo qualche parola, apprezzano i nostri fuochi d’artificio, un incontro simpatico.
Piano piano il gruppo si ricompatta, la maggioranza scende a piedi a Rocca, solo Alberto ed io optiamo per il ritorno a piedi, perché no?
Salutiamo la compagnia e ci avviamo  sulla via del ritorno.
In pochi minuti siamo alla Cipolla, riempiamo la borraccia e via, verso casa, superiamo l’Astass dove ci sono ancora dei campeggiatori.
Pochi minuti dopo arriviamo all’incrocio con il sentiero che scende dal Monte Roncalla.
Li incontriamo Alessia, con madre e figlia, pochi metri più indietro Flavio con sorella e Simona, gente di Ascona, gente di Torrio.
Salutiamo Alessia, da dove vieni, dove vai, cosa vuoi chiedere a chi vedi tutti i giorni? Solite cose, un saluto, ci vediamo in paese.
Salutata la prima compagnia è l’ora di Flavio e torriesi al seguito, ma una voce rompe il silenzio: Silva, vieni qui, corri.
Faccio pochi metri e, distesa sul sentiero, c’è la madre di Alessia con il piede completamente girato: impressionante, anche se non c’è quasi nulla che mi impressioni.
Cazzo facciamo? Non c’è campo, bisogna chiamare i soccorsi.
Alberto resta con Alessia e madre e figlia, io corro verso il Groppo sperando che ci sia campo per chiamare i soccorsi.
118, buongiorno. Spiego dove siamo, la natura dell’incidente, mi chiedono informazioni sull’infortunata, come possono intervenire, io suggerisco, ma non posso trovare la soluzione, siamo in montagna, su di un sentiero.
Resto li, non mi godo neanche il panorama, qualche minuto e chiamata anonima: buongiorno, vigili del fuoco.
Mi chiedono cosa è successo, quali sono i danni, dove possono atterrare: alla Cipolla ci sono troppe persone, il sentiero è stretto anche per un trattore, l’unica soluzione è provare l’atterraggio sul Groppo o al limite alla Roncalla.
Non si preoccupi, non mi preoccupo, dodici, quattordici minuti  e siamo li.
Non passa molto e mi raggiunge un signore, dice di essere un dottore, che ha sistemato il piede alla madre di Alessia, quando mi richiamano i vigili del fuoco spiega con dovizia di particolari come è intervenuto.
Poi arriva l’elicottero, gira, gira, gira, prova ad appoggiarsi su uno dei picchi del Groppo, non riesce, prova sul prato del Pero, niente, scende fino a Rocca, atterra e riparte, ha sicuramente impiegato meno ad arrivare da Genova in valle che a far scendere i soccorritori. Poi ritorna, pochi attimi, si appoggia appena sul solito picco e scendono due vigili del fuoco con l’attrezzatura. Si fa incontro il medico, spiega anche a loro l’accaduto, raggiungiamo la ferita.
E’ stesa a terra, il piede adesso è in assetto normale, Alessia vorrebbe raggiungere il padre che l’attende alla Cipolla, vai pure, restiamo noi. Mentre i soccorritori cominciamo a sistemare la ferita sulla barella, arrivano due volontari del Soccorso Alpino, di corsa, ma da dove arrivano? Sono stati velocissimi.
Pochi minuti e inizia il trasporto verso l’elicottero che sta roteando sopra le nostre teste, avvisano via radio e come sbuchiamo allo scoperto il velivolo è in posizione, arriva la barella e l’elicottero si appoggia appena per non spegnere i motori, caricano la ferita, i due del Soccorso Alpino salutano e l’elicottero riparte.
Cazzo che bravi, questa gente si che è in gamba. Il tempo di commentare l’intervento con Flavio ed è ora di ripartire.
Mentre scendiamo ci raggiunge e supera Claudio, un amico, due parole poi lui devia per un altro sentiero. Quando arriviamo alla Priosa scattiamo un paio di foto ricordo, poi di corsa verso Ascona, verso l’ultimo sabato sera di vacanza, verso nuovi momenti, dentro di noi tante emozioni da raccontare.

Festa al Maggiorasca, pt 1

Tutti gli anni, il 27 agosto, centinaia di valligiani e turisti si danno appuntamento sulla cima più alta dell’Appennino Ligure, il monte Maggiorasca, per rendere omaggio alla patrona della val d’Aveto, la Madonna di Guadalupe.
Chi a piedi, chi con la seggiovia, chi magari con il fuoristrada (pochi per fortuna), tutti si ritrovano lassù per celebrare la Santa Vergine: Messa, processione e liberi tutti.
Io ho aspettato la bellezza di cinquantatré anni per parteciparvi e vivere la festa e dopo l’esperienza di dodici mesi fa, quest’anno naturalmente ho voluto ripetere l’esperienza.
Mentre lo scorso anno avevamo lasciato le auto a Rocca d’Aveto ed eravamo saliti a piedi, la concomitanza con un rally ha fatto si che quest’anno io ed i miei compagni di avventura decidessimo di partire da Ascona e raggiungere il Maggiorasca a piedi.
La sera prima della festa ci incontriamo nel circolo per stabilire l’orario dell’appuntamento.
Io non sono sicurissimo della scelta, il giorno prima sono stato sull’Oramara ed il lunedì ho fatto l’anello del Monte Nero, sono un pò imballato, ma non mi va di tirarmi indietro.
A mio giudizio occorrono almeno tre ore per compiere il percorso, tre quarti d’ora per arrivare sul passo del monte di Mezzo, un ora e un quarto almeno per arrivare sul Groppo, mezzora alla Cipolla e mezzora per arrivare alla vetta, Giampaolo dice che in due ore e mezza si fa, chiediamo ad uno e all’altro, ma i pareri sono discordanti.
Alla fine si opta per le otto in piazza.
Alle otto ci siamo tutti: Alberto, Andrea, Giampaolo ed il fido Dexter ed il sottoscritto. Zainetti in spalla e bastoncini, si può partire.
Imbocchiamo la strada per la Cappelletta, c’è ombra, quasi freddo, ho la maglia a maniche lunghe, la toglierò solo dopo l’Astass.
Durante la salita intravediamo un capriolo fare capolino dal bosco, ci vede e scappa immediatamente.
Una volta in cima alla prima faticosa salita prendiamo la vecchia mulattiera che porta al passo e da li a Santo Stefano: è sporca, ricoperta di foglie, chissà quante persone l’hanno percorsa, ad un tratto tagliamo, imbocchiamo un piccolo sentiero che ci porta ad una strada tracciata per un taglio d’alberi, è una scorciatoia che ci riporta sull’interpoderale. Da qui in breve siamo al passo, quaranta minuti circa, tabella rispettata.
Attraversata la comunale per Torrio iniziamo a salire sul montarozzo pietroso accanto al monte di Mezzo, non ho mai saputo come si chiama, per gli anziani del paese è sempre stata la Priosa.
Saliamo ed in breve scendiamo e siamo sul sentiero non ufficiale, non segnato per la Valle Tribolata e per il Groppo.
Si ride, si scherza, si parla anche di cose serie,  con Giampaolo ed Alberto si è cresciuti insieme, Andrea è sposato con una mia cugina ed è una persona che stimo davvero molto, diversamente non lo frequenterei. Il passo è buono, ma il tempo è tiranno; sono le dieci meno dieci quando arriviamo sulla cima del Groppo.
Da li alla Cipolla è tutta in piano, ma alla fine impieghiamo quasi quaranta minuti per coprire il tragitto: dieci e mezza, davanti a noi il tratto più brutto.
Andrea vorrebbe bere un caffè, è da Ascona che se lo pregusta, entrano lui, Alberto e Gian nel rifugio e sorpresa delle sorprese, la macchina non funziona, ah, torta di riso? Finita!
Sul prato davanti a noi decine di tende, decine e decine di ragazzi.
Beh, non c’è molto da dire sulla salita che ci attende, l’ho già narrata in altre occasioni, la sola differenza sono le decine di fedeli e non che stanno salendo in nostra compagnia.
Una volta raggiunta la sella ai piedi del monte Bue, prendiamo una scorciatoia che ci hanno insegnato l’anno precedente, ci evita la pesante salita a rissoeu, ma non ci fa guadagnare granchè in termini di tempo.
Alle undici meno cinque siamo sul Maggiorasca, in perfetto orario (segue)

Un escursione un po così

Il 24 Giugno a Genova è il giorno della festa patronale, San Giovanni Battista, si chiude baracca e burattini ed io non posso non approfittarne per scappare in valle con ventiquattr’ore di anticipo.
Arrivo in paese giovedì sera, un pasto veloce e scappo sul Crociglia, vorrei scattare qualche immagine del tramonto, ma la luce è pessima, c’è foschia all’orizzonte e le mucche al pascolo piuttosto nervose. Mi accontento di tre quattro scatti appena decenti e torno a casa: la coppia di cinghiali che era scappata al mio arrivo, mi da il saluto d’addio scappando nuovamente.
Il mattino dopo, sono le otto e mezza quando posteggio l’auto nel piazzale di Rocca. C’è solo la mia auto, ma pochi minuti dopo arriva un pulmino che sbarca una decina di giovani brufolimuniti, fanno parte di una squadra di calcio in ritiro a Torrio. Fanno un baccano indescrivibile, ci sono ormoni che schizzano ovunque. Per mia fortuna sono già pronto e parto verso la mia meta. La massa urlante di adolescenti mi segue.
Imbocco il sentiero che porta al Prato della Cipolla. La prima parte è sempre quella più difficile, con quel pavè in cemento e pietra che spezza gambe e ginocchia in un attimo. Dopo la prima rampa svolto sulla sinistra, qui il rissou è quello d’un tempo, fatto dai nostri nonni o chissà chi. Altra arte.
Alla prima curva scatto la prima foto, la solita, terra, cielo e fiori, mi fa impazzire quella vista.
Piano piano riesco a staccare i giovani barbari, poi, finalmente, arrivo al bivio che porta all’Astass, il piccolo rifugio tra la Cipolla ed il Groppo Rosso e qui svolto.
Il sentiero qui è fantastico, scavato nel terreno, in mezzo all’erba e ai fiori, immerso nel giallo e nel verde, nell’azzurro del cielo. Qualche tratto all’aperto, qualche tratto all’ombra dei rari alberi sino al momento in cui si entra definitivamente nel bosco, in piano, all’ombra.
Non incontro nessuno, nessun segno di vita, non sento neppure più il vociare entusiasta dei ragazzi, ma chissà quanti occhi di piccoli animali mi stanno scrutando.
Non impiego molto ad arrivare al rifugio, hanno rifatto il tetto da poco, c’è ancora del materiale da portare via.
Da qui, in pochi minuti arrivo sulle Groppe, sui picchi del Groppo Rosso.
Non dico che resto deluso in quanto ero già preparato: c’è caldo e c’è foschia e la vista è limitata. Pazienza.
Scatto qualche foto ai fiori e ai colori del monte, fantastici. Poi decido di immortalarmi in un autoscatto, ho portato con me il nuovo treppiede e, sorpresa delle sorprese, nel tragitto ho perso un piedino. Automatico scatta un vaffanculo astronomico. Questa è sfiga, sarà mica colpa del gatto nero che mi ha attraversato la strada ieri sera a Pareto? Ne sarei quasi certo fossi scaramantico.
Tolgo gli altri due piedini e faccio comunque la foto.
Adesso posso ripartire: fa caldo ed il sentiero nel bosco troppo breve, la salita per il Prato del Pero o Roncalla se preferite, è ripida e sotto un sole cocente, io fuori forma, di brutto e faccio una discreta fatica a salire, ma poi arrivo, come sempre.
Scatto una fotografia con lo smartphone per pubblicarla su Instagram, la nuova frontiera, ci saranno sempre curiosi come sul libro delle facce, ma qualche faccia di merda in meno di sicuro.
La sosta è breve, riparto verso la cima della Ciapa Liscia, il sentiero adesso è in falso piano e all’ombra, piacevole, cinque minuti e sono arrivato: ripeto lo scatto fatto un paio di anni fa e pubblicato quest’anno sul calendario di Torrio, ma la luce e l’ora sono completamente diversi, già, nulla è mai come prima.
Il prato sulla vetta è devastato dai cinghiali, è impressionante come riescano a scavare il terreno con il muso.
Dopo una breve discesa rientro nel bosco, ombra, silenzio, luce che filtra tra gli alberi, pochi minuti e imbocco lo 001, il sentiero che mi porterà al Prato della Cipolla dove arrivo in meno di mezz’ora.
Sono solo, bevo un sorso d’acqua gelata alla sorgente e mi siedo pochi attimi ai tavoli accanto al rifugio. Malgrado il caldo, è una meraviglia, non andrei mai via, ma devo.
Scendo velocemente ed in breve sono all’auto, sul sentiero e sul piazzale cerco tracce del piedino del treppiede, ma la mia ricerca è vana, maledetto gatto nero.
Il campanile batte mezzogiorno quando arrivo a casa, una doccia ristoratrice e per chiudere la mattinata la spiacevole sorpresa di una piccola zecca attaccata al mio corpo. Cazzo, ma questa è sfiga davvero!
N.B. Come nei titoli di coda dei film (per ambientalisti e animalisti estremisti): il gatto nero è ancora vivo e la zecca l’ho tolta senza troppa fatica, l’ho gettata a terra senza ucciderla!