New York (1 Luglio 2009)

Alle dieci e venticinque una voce annuncia che iniziamo la discesa verso l’aeroporto La Guardia, sempre nel Queens, più a nord rispetto al JFK. L’atterraggio è la parte più bella del viaggio: una volta lasciato il mare sorvoliamo i quartieri periferici di New York, si vedono distintamente le case e le auto, in lontananza si vede Manhattan, passiamo sopra le autostrade intasate, sopra un cimitero e finalmente l’atterraggio. Un quarto d’ora in anticipo, peccato  ci sia traffico e che il nostro bocchettone sia occupato, cosi sbarchiamo venti minuti più tardi.
Il La Guardia è un po’ incasinato, si esce dai tunnel per ritrovarsi in mezzo ai passeggeri in partenza per poi arrivare nell’area di sbarco dei bagagli. In un angolo ci sono pile di valigie smarrite o di voli precedenti, dinanzi a noi passano diverse valigie sfondate, Orietta dice di aver visto solo la mia sui carrelli, mi consolo. Finalmente arrivano anche i bagagli del nostro volo, prendiamo le nostre valigie e usciamo da questa bolgia, siamo a New York.
Seguiamo gli altri passeggeri, arriviamo nella hall e ci guardiamo intorno per capire dove siano i taxi: appoggiati ad un bancone ci sono due signori con la camicia bianca, uno ci chiede se ci occorre un taxi e Orietta dice sì. L’uomo le prende la valigia e dice di seguirlo, quanto costa, cinquantacinque dollari, io sapevo trentacinque, mi giro e vedo sulla destra l’enorme parcheggio dei taxi, è sicuro di essere un tassista? Certo, lavoro in proprio, a me la cosa non va, rompo le palle e Orietta gli dice che abbiamo cambiato idea e si riprende il bagaglio. Arriviamo al parcheggio dei taxi, c’è addirittura un addetto che regola l’afflusso di passeggeri e auto. Saliamo su non so quale tipo di auto, diciamo all’autista dove dobbiamo andare, gli diamo anche il foglio con la prenotazione, questo non ha la minima idea di dove sia la 55 strada.
E’ arabo, inizia ad impostare il navigatore nella sua lingua, ma non riesce, attraversiamo il Queens, arriviamo ad un ponte a pedaggio, probabilmente siamo nel nord di Manhattan, forse ad Harlem. Scendiamo verso sud, questo smanetta nel navigatore, sempre in arabo e non ottiene riscontri, ormai siamo nella zona di Central Park, l’albergo è davvero vicino, finalmente utilizza l’inglese e d’incanto arriviamo, quarantadue dollari, con la mancia, ad essere genovesi, rompipalle e diffidenti ogni tanto si fa la cosa giusta.
Entriamo in albergo, il Da Vinci e alla reception ci dicono di lasciare i bagagli, la camera non è ancora pronta, ci vorranno almeno due ore, ne approfitteremo per andare a mangiare: Cioppi vorrebbe entrare nel primo locale, io dico di aspettare, Orietta anche, ma forse perché ha fame anche lei o per andare incontro a Gianluca, decide di entrare nel secondo locale che incontriamo. E’ una pizzeria italiana con tanto di bandiera, da Luigi’s. Di Italia e di italiani neppure l’ombra, sono colombiani con tanto di bandierina dietro il banco, ma il marchio Italia sicuramente vende meglio. Ordiniamo una pizza normale, pomodoro e mozzarella, il cameriere si stupisce che non aggiungiamo altro, noi ne vorremmo tre, lui gentilmente ci consiglia di prenderne una sola, la large. Ha ragione perché alla fine ne lasceremo pure una fetta; paghiamo un inezia, quindici dollari e ci dirigiamo verso Central Park a fare due passi. Intanto notiamo la prima differenza con le altre città dove i semafori avevano il conta secondi, qui no, la gente attraversa sempre, appena non passano auto i pedoni si lanciano e attraversano la strada, i taxi suonano sempre e agli incroci transitano come pazzi. All’esterno del parco ci sono molti ragazzi, giovani, che ti propongono di fare un giro sulle biciclette con la carrozzella. All’interno è un oasi, ci sono persone di tutte le età che corrono, ciclisti, carrozze con i cavalli, nei viali laterali persone che leggono o portano a passeggio i cani; incrociamo un ragazzo con in braccio un cagnolino coi calzini rossi, lo guardiamo, ci ricambia lo sguardo in malo modo e stringe a se il cane, ma vai che nessuno te lo tocca. Siamo stanchi, vorremmo riposare, torniamo all’albergo, ma la camera non è ancora pronta, Non abbiamo nessuna intenzione di vagare per New York, per cui restiamo nella hall a navigare su internet con i due computer a disposizione dei clienti e veniamo così a conoscenza della strage di Viareggio. Verso le due e mezza finalmente ci siamo, la stanza è pronta, camera duezerosei, primo piano. Una doccia e tutti a letto, Orietta dorme già. Ci alziamo verso le cinque, forse qualche minuto prima, è il momento di assaggiare la Grande Mela.
L’hotel è posizionato davvero bene in quanto siamo praticamente sulla Broadway, uno, due isolati al massimo: sono subito vetrine, ristoranti, teatri, tanti teatri e in fondo le luci di Times Square. Più camminiamo e più c’è gente, devi scansare le persone, arriviamo a Times Square ed il rumore delle voci e delle auto è fastidioso, eravamo abituati troppo bene, nei giorni precedenti il contatto con gli altri esseri umani era minimo e necessario, ora vorrei solo evitarlo. Facciamo un gran numero di fotografie, ma non vi trovo anima, c’è un ragazzo con un serpente che si fa pagare e mette il rettile intorno al collo del turista di turno, sul marciapiede più avanti c’è un gruppo di colore che suona una canzone dei Police, quando siamo nelle vicinanze dell’ Empire State Building c’è una grande scacchiera dove stanno giocando.
Decidiamo di andare in cima al grattacielo più famoso di New York: chi non ricorda King Kong? Bisogna salire con l’ascensore per avere l’accesso alle biglietterie, c’è fila, ma non ricordo una sola fila lenta in America, la gente è paziente, con il ticket di venti dollari arrivi all’ottantaseiesimo piano, con quindici dollari in più arrivi in cima, al centoduesimo piano, per noi è sufficiente la prima soluzione. Passiamo i controlli, c’è la coda per prendere l’ascensore, arrivi all’ottantesimo, solito negozio di souvenir, ennesima foto che lasceremo ai posteri e nuovo ascensore. Arriviamo a destinazione, usciamo all’esterno, ci sono tantissimi turisti, è dura raggiungere il parapetto, ma non impossibile.
Ai nostri piedi c’è Manhattan, più o meno siamo a trecentocinquanta metri da terra. E’ davvero eccitante questa sensazione di altezza: si vede la punta meridionale dell’isola, laggiù c’è la statua della Libertà e ancora più distante il ponte da Verrazano, dall’altro lato Central Park e quello dovrebbe essere Harlem. Davanti ai nostri occhi oltre all’Hudson ci sono il New Jersey e Staten Island, di qua Brooklyn ed il Queens, e tanti tanti grattacieli, quello è il Chrysler, è davvero bello, e c’è vento, faccio una foto a Orietta ed è tutta spettinata. Nell’aprile 2001, alla morte di Joey Ramone, cantante dei Ramones, il grattacielo venne illuminato con i colori della bandiera americana mentre nel settembre dello stesso anno, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle, l’Empire è tornato ad essere la costruzione più alta di New York e la seconda degli Stati Uniti. Gira la testa, è New York.

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