Archivio mensile:febbraio 2020

Il coronavirus ci ha solo smascherato: siamo una manica di vigliacchi (Rolling Stone©)

di Enrico Dal Buono – Rolling Stone©

Con questa storia del coronavirus ci abbiamo fatto una figuraccia con la morte. Così evoluti, illuminati, emancipati, sgamati, smaterializzati. E poi, appena il nostro organismo da grossi mammiferi viene vagamente minacciato, corriamo al supermercato per fare scorta di scatolette di tonno. Sei millenni di storia e siamo ancora delle scimmie impaurite. Paura, paura e basta, ecco che cosa ci fa alzare la mattina: guadagnare per non morire di fame, tenersi stretto qualcuno per non morire di solitudine, e se mi ammalo servono soldi e affetti. Ecco che cosa siamo, bestie impaurite. E poi ci facciamo le stories, guardiamo i talk show, ascoltiamo una canzoncina in giro di do dietro l’altra, ci sbronziamo e andiamo a puttane soltanto per scordarci di quella paura.

Asserragliati nei nostri presenti usa e getta, ripiegati su noi stessi come porcospini nella notte, non ci rimane altro da difendere, senza fedi né ideali, che le nostre piccole sopravvivenze. Niente guerre, niente martiri, niente rivoluzioni, pretendiamo di annoiarci per sempre, di passare le ere geologiche nelle nostre stanzette antisismiche a farci le seghe con PornHub.

Sembra che la certezza più antica del mondo diventi di colpo una notizia: moriremo tutti. Non ce lo aspettavamo. La gente adesso muore, pensa te, dove andremo a finire? Ma grazie allo smart working camperemo per sempre. Un delirio di massa. Struzzi con la testa sotto la sabbia da decenni che a un tratto avvistano una talpa carnivora. Solo i vecchi muoiono! Io sono giovane, non morirò. Affari loro. Loro ci sono nati, moribondi. Io invece avrò 29 anni per sempre. Un branco di decerebrati.

Soprattutto a Milano, dove si dice di lavorare per la bellezza e per il progresso, dove chissenfrega dei nostri anacronistici corpi, le idee viaggeranno per sempre nel cloud a disposizione dell’umanità. E poi misuriamo un metro e mezzo dai vicini di tram e guardiamo chi starnutisce come fosse un bioterrorista.

Ci consideriamo delle specie di elfi: se non ci succede niente dureremo quanto il sole. Sembra che un paio di quarantene e di tutorial su come lavarsi le mani rimuovano per sempre il problema della morte. Via il coronavirus, si tira dritto per l’eternità. Pare si crepi solo per le emergenze che i media decidono di volta in volta di strombazzare. Un anno si muore di rapinatori albanesi, un anno di surriscaldamento. Così restiamo zimbelli nelle mani dello share e del conteggio dei click.

La verità è che di quella promessa di vita eterna delle vecchie religioni noi avevamo bisogno. Guardateci adesso, in fila al Carrefour, a litigare per l’ultimo pacco di pipe rigate o di acqua oligominerale. La verità è che in pochi di noi sopportano la pura, netta, cristallina e petulante idea della morte. La verità è che l’alternativa è tra promessa ultraterrena e amnesia di massa. Finché un direttore di giornale per vendere qualche copia in più non decide che ora ce lo dobbiamo ricordare, di essere mortali. Eccezionalmente mortali, solo per qualche giorno, poi si torna divini.

Con le arie da post-umani che ci diamo dovremmo invece ritenere la nostra esistenza un dettaglio del cosmo, ragionevolmente trascurabile, quanto quella di una blatta o di un albicocco. Questo attaccamento alla vita è così volgare per gente capace di fare un bonifico online e di indignarsi sui social network per la fame nel mondo. Ecco che sentiamo “epidemia” e siamo già tappati in casa con due giri di chiave, e che il mondo con la sua fame si fotta là fuori. Facciamo i fighi in auto, sfrecciamo in città, passiamo col giallo, che tanto chi se ne fotte. Beviamo e fumiamo e pippiamo e scopiamo senza preservativo perché a me non importa. Tutto bellissimo, per carità. Ma non è vero.

Siamo una manica di lombrichi che avvicini il dito e quelli si abbozzolano su loro stessi. È appena passato il mercoledì delle ceneri: quei vecchi ebrei, 3.800 anni fa, la sapevano più lunga di politici e scienziati e santoni e luminari di oggi: “polvere sei, e polvere tornerai”. Per quante mascherine e guantini t’infili. Finché non ci fermiamo e non ragioniamo su questo fatto, finché non pensiamo che nessun Burioni o medico trentaquattrenne cinese o ottuagenario lombardo potrà mai morire al posto nostro, finché non capiamo che cosa siamo, e cioè mortali, saremo in balia di ogni notizia, vera o falsa, che lanci la moda di una catastrofe monoporzione.

Vagabondo

Genova, maggio 1982. Tornato alla solita vita genovese, avevo ripreso la solita pessima compagnia di amici, ragazzi difficili, ma sicuramente più veri e sinceri di tante persone incontrate in seguito.
Erano anni difficili, ma il ricordo è tremendamente bello .

Ho camminato strade non mie
per arrivare qui,
ho visto fanciulli allegri
e ragazzi tristi,
ho incrociato giovani disperati
e ragazze innamorate,
ho conosciuto la disperazione
di una generazione.
Ho provato a nascondere la realtà
ma volti l’angolo e sei daccapo,
ho provato a cambiare amicizie
ma torni sempre indietro,
ho provato a distinguere gli amici
ma non è servito a nulla,
ho provato a ridere,
ma qualcuno non me lo ha permesso,
ho provato a ribellarmi,
ma le catene che mi imprigionano
sono di acciaio,
ho provato a uccidere,
ma le mie mani sono di carta,
ho pianto
perché il cuore è ancora mio
ed ora sono qui
a raccontarti tutto questo
anche se tu fumi
e non mi ascolti,
ma voglio che tu sappia
quanto è duro vivere
e quanto è difficile vivere
in questo mondo,
dove gli eroi bruciano
dopo la fiamma di un solo giorno,
dove la gente muore per strada
e dove io sono qui,
seduto,
a piangere.

Barbara

Aprile 1982. La stagione a Madesimo era ormai alle spalle, ero tornato a Genova alla solita vita in attesa di ripartire alla volta della Sardegna dove avrei vissuto una esperienza difficile da dimenticare. Dopo aver scritto Cercami (pubblicata nel giugno 2016, fu la volta di Barbara dedicata ad una amica di adolescenza. A rileggerla a distanza di anni devo ammettere che non è una di quelle riuscite meglio.

Scriverti addosso una poesia
mi riesce difficile,
mi è più facile pensarti,
pensare al tuo viso,
ai tuoi occhi,
alla cascata dei tuoi mille e più capelli.
Mi è facile pensare a te,
a te che mi sei amica,
alla nostra amicizia,
alle lettere scritte per aiutarmi.
Non è semplice trasportarti
sopra un foglio di carta,
la tua bellezza non si scrive,
si ama.
In te c’è la dolcezza
di una fragola appena colta
e l’amarezza di un rimpianto,
di un mondo sempre più triste.
Sei dolce in ogni tuo gesto,
in ogni tuo sguardo,
in ogni tua parola,
sei dolce e amara,
come la fragola di bosco
che non voglio cogliere
per non sciupare tutto.
Così sei
e mai ti potrò ricordare in modo migliore.

Salita al monte Capenardo

Seconda domenica di gennaio, prosegue il mio confino in riviera, vorrei salire ad Ascona, ma c’è qualcosa che mi blocca, non so spiegare cosa sia.
Visto che mi sono autoinflitto la punizione di restare a Genova, decido di fare una nuova escursione, questa volta senza Andrea.
Sono le otto e mezza quando parto da Genova in direzione Lavagna. Una volta arrivato nella cittadina rivierasca mi dirigo verso la stazione. Posteggio l’auto poco lontano la cattedrale, imposto la app sullo smartphone e sono pronto. La mia meta è il monte Capenardo, una piccola cima alle spalle di Cavi di Lavagna.
Il mio percorso ha inizio lungo una salita che parte sulla sinistra della corniche che arriva da Cavi.
Una volta in cima percorro un tratto asfaltato a fianco di un magazzino comunale. Dopo un centinaio di metri arrivo in uno slargo dove imbocco una creuza che sale sulla sinistra. Una volta in cima un cartello mi indica che devo svoltare a destra, attraversato un borghetto con vecchie case coloniche, una curva a sinistra e trovo il sentiero vero e proprio, un viottolo in cemento che taglia a più riprese la strada che porta a Santa Giulia sino a costeggiarla per alcune centinaia di metri senza però percorrerla. Una volta attraversata mi trovo in una lunga salita, in cima a questa vedo tre figure che stanno salendo, mi consolo, non sono l’unico a cui è venuta questa idea.
In cima alla salita sono finalmente arrivato a Santa Giulia: prima di proseguire il mio percorso decido di dare un occhiata al panorama che si gode da questo piccolo borgo abbarbicato sulle alture di Cavi. Una volta in piazza sento urlare il mio nome: è Igor, un mio amico di Vicosoprano, davvero piccolo il mondo.
Baci e abbracci, mi presenta i suoi amici e con loro percorro un tratto di cammino sino alla frazione di Crocetta.
Nella piccola frazione di Lavagna si dividono i nostri percorsi: dopo averli salutati imbocco il sentiero che mi porterà sulla sella tra il monte Rocchette ed il Capenardo. Dopo una prima salita tra le case del paese il sentiero spiana leggermente, attraversa le fasce coltivate ad ulivi e si addentra finalmente nel bosco. Questo sentiero è uno di quelli che compongono la via dell’ardesia, vecchi sentieri che venivano percorsi da coloro che lavoravano nelle numerose cave poste su queste colline.
Il sentiero adesso sale in maniera importante tra vecchi gradini sconnessi, usurati dal tempo, sarà interessante percorrerlo in discesa.
Ad un tratto, quando finalmente vedo la luce della sella sulla mia destra trovo una piccola edicola dedicata alla Vergine ed una targa ai suoi piedi che recita parole d’amore, parole di speranza.
Dalla targa alla sella è questione di un attimo. Sulla sella trovo un cacciatore in postazione, neppure un saluto e svolto sulla mia destra. La app mi indica che mancano solo 950 metri e così è.
Il sentiero adesso corre sula cresta della collina, in piano, non è molto largo, leggermente viscido a causa della rugiada e della recente pioggia.
Finalmente sono a destinazione. La vetta non è altro che uno spiazzo erboso tra gli alberi. Su di un paolo le indicazioni tra le varie destinazioni. Mentre mi sistemo iniziano ad arrivare dei bikers tutti su bici elettriche, comoda la vita.
Prima di scendere, mi piazzo su di un praticello da dove si gode una vista fantastica sulla riviera: Cavi, Lavagna, Chiavari sino a Santa e Portofino e le Alpi, già, le Alpi, sembra di toccarle.
Il tempo di salita, con pause, discorsi con Igor e le innumerevoli fotografie è sato di due ore, ora mi toccherà scendere e mettere a dura prova le mie ginocchia sulla moltitudine di gradini che caratterizzano il percorso, ma avrò davanti agli occhi la spettacolare vista che solo la Liguria riesce ad offrire.

 

Escursione a Punta Baffe e Moneglia

Il 2020 è iniziato da pochi giorni e contemporaneamente le mie meritate ferie sono ormai agli sgoccioli, si avvicina il momento del rientro al lavoro e devo sfruttare al meglio gli ultimi giorni di vacanza per non avere rimpianti quando rientrerò al lavoro.
Sono le nove del mattino della prima domenica di gennaio quando parto da Genova per recarmi a Caperana dove ho appuntamento con il mio amico Andrea: ci siamo sentiti la sera prima e abbiamo deciso di fare due passi insieme.
Siamo entrambi puntuali e ci dirigiamo immediatamente verso Riva Trigoso dove ha inizio la nostra escursione.
Una volta posteggiata l’auto nei pressi della Bocciofila, partiamo alla volta di Moneglia, meta della nostra gita.
I primi centocinquanta metri del percorso sono sulla strada asfaltata dopodiché imbocchiamo una carrareccia sterrata che ha inizio sulla nostra destra. E’ uno stradone largo, reso umido dalla rugiada del mattino. Dopo alcuni tornanti che aiutano a prendere quota, il sentiero corre sul versante che si affaccia sulla strada delle gallerie, per intenderci quella che porta a Moneglia.
La vista è splendida: il promontorio di Punta Manara, la spiaggia di Riva, i cantieri navali della Fincantieri, simbolo di un mondo che fu e che ancora resiste, ed il mare.
Dopo un lungo tratto in piano caratterizzato da un paio di panchine con vista sull’infinito, il sentiero si restringe, il fondo diventa accidentato ed inizia a salire. Il tratto non è particolarmente lungo o impegnativo e una volta tornato in piano siamo di fronte ad un bivio: sulla sinistra il nostro sentiero, sulla destra una deviazione che in meno di cinque minuti porta a Punta Baffe e alla torre di avvistamento posta su di essa. Facciamo questa deviazione e una volta ai piedi della torre ci poniamo il dubbio se cambiare percorso ossia scendere verso Nua Natua, un agriturismo posto lungo la strada delle gallerie e da li risalire e poi scendere verso Moneglia oppure mantenere l’idea iniziale.
Decidiamo di non cambiare e una volta tornati sui nostri passi, iniziamo a salire verso il Colle del Lago, dove è posta un area di ristoro e l’ennesimo bivio.
La salita è dolce, siamo circondati dalla macchia mediterranea anche se sono evidenti le tracce lasciate dal violento incendio che alcuni anni fa ha bruciato la collina, la vista fantastica e la temperatura mite, non si direbbe assolutamente che siamo a gennaio.
Una volta arrivati al Colle il sentiero principale prosegue verso la cima del monte Moneglia mentre noi svoltiamo sulla destra sul sentiero che porta verso il comune rivierasco.
Da questo punto in poi il sentiero segue il versante sul mare, inizialmente sull’ansa di Nua Natua e quindi una volta superato il crinale si ricongiunge col sentiero che scende dal monte Comuneglia e quello del sentiero verde azzurro che sale dall’agriturismo.
Una volta superato un tratto di sentiero sconnesso e avvolto dalla vegetazione, ci ritroviamo in pochi minuti sulla strada che dal centro del paese porta a delle villette isolate in collina.
Adesso il sentiero è tutto sull’asfalto, qualche breve deviazione sulle tipiche creuze e siamo finalmente arrivati.
E’ giorno di mercato, ma i banchi stanno già smontando, adocchiamo un ristorantino dove mangiare un boccone e ci dirigiamo verso il lungomare per vedere se ci sono dei bus che ci riportano a Riva, ma nulla, la domenica non ce n’è, dovremo prendere il treno.
Controllati gli orari delle FS, non ci resta che pranzare e recarci in spiaggia a godere il calore di questa tiepida giornata di gennaio. Per tornare verso casa non c’è alcuna fretta.