Le mie Dolomiti, pt 3

Adesso siamo in cima alla ferrata, accidenti che botta di adrenalina. Non torno a vedere da dove sono salito, ma la rifarei subito. La scarica è stata forte, ci scambiamo sensazioni, opinioni, scattiamo qualche foto ricordo. Si, lo so, per chi ha già fatto una ferrata magari è la cosa più banale del mondo, ma lasciatemi godere il brivido che percorre il mio corpo.
Mi guardo intorno: adesso siamo in una sosta di pianoro roccioso, sulla sinistra del punto di arrivo della ferrata appare la sagoma del Nuvolau, il sentiero prosegue quasi in piano sino ad arrivare ad una seconda ferrata, ad un terrazzamento ed al rifugio.
Un altra ferrata? Uhm, ci penserò quando sarò li sotto. Intanto mi godo lo spettacolo che si para davanti ai miei occhi: vette, vette, vette e cielo.
Pochi minuti di sosta ed è già il momento di ripartire, facciamo qualche centinaio di metri e smarriamo il sentiero. Niente panico, torniamo indietro sui nostri passi e ritroviamo il segnavia. Intanto ci raggiungono e ci superano un ragazzo e una ragazza, simpatici, sono del Sud, due parole e ci lasciano.
Francesco ed io andiamo avanti, Elisabetta e Gaia ci seguono un po staccate, Gaia non è stata molto bene negli ultimi giorni e malgrado tutto si sta comportando egregiamente.
In breve siamo ai piedi della ferrata: metto via la mia Pentax K3, allaccio lo zaino e via. Moschettone e corda, aggancio, sgancio, un’altra scala, nuovamente corda, aggancio, sgancio, siamo in cima. Cazzo, ma c’è un sacco di gente!
Facciamo fatica a trovare spazio sulla piattaforma di cemento che si presenta appena arrivati: ovunque ci sono persone, che telefonano, che scattano foto, che scattano selfie, che arrivano, che scendono contromano. Sarà che sono abituato alle vette dell’Appennino, ma questo è il caos.
La vista però è fantastica, mozzafiato. Scatto, scatto, scatto, mangio un frutto offertomi da Francesco, ci sistemiamo e ci dirigiamo verso l’ingresso del rifugio: l’apocalisse. Se dal lato della ferrata mi sembrava che ci fossero molte persone, qui è il caos. Il perché? Una seggiovia a poco più di 500 metri e probabilmente altri mezzi di locomozione nelle vicinanze. Proviamo ad entrare, ma è impossibile, come sarebbe impossibile sedersi ai tavolini, fuori o dentro è indifferente. Quasi impossibile scattare fotografie, per bene che ti vada spuntano teste e zaini.
Facciamo un breve consulto, dobbiamo ancora mangiare, il tempo minaccia pioggia e le condizioni mie e di Gaia non sono al top. Decidiamo di scendere al rifugio posto sulla sella tra Averau e Nuvolau, dove arriva una seggiovia. In meno di mezzora arriviamo, in mezzo a decine, macché decine, centinaia di escursionisti, esperti, non esperti. Ad un tratto ci fermano una coppia con figlia al seguito per avere indicazioni, hanno due cagnolini e abbigliamento non adeguato, vorrebbero fare il nostro giro, al contrario, li sconsigliamo vivamente, così non si va da nessuna parte!
Una volta arrivati al rifugio Averau, Francesco ci abbandona: deve andare a recuperare l’auto sul passo Giau e venire a prenderci all’arrivo della seggiovia. Con Gaia ed Elisabetta entriamo a mangiare qualcosa, anche qui c’è il mondo. Mi armo di pazienza, ordiniamo e riusciamo a trovare posto all’esterno. Il tempo di mettere in bocca il primo boccone ed inizia a piovigginare. In qualche modo riusciamo a terminare.
Adesso cosa facciamo? La pioggia per ora è leggera, forse non è il caso di scendere a piedi, forse non è il caso di scendere, così decidiamo di salire sulla seggiovia, Elisabetta e Gaia davanti, io da solo sul seggiolino seguente.
Percorriamo forse un centinaio di metri ed inizia a piovere in maniera decisa, poi ancora più forte, poi la pioggia diventa grandine. Che fortuna! non ci facciamo mancare niente. Il viaggio di pochi minuti diventa un odissea, per mia fortuna ho il guscio e lo zaino è protetto dalla sacca impermeabile, ma ho i pantaloni fradici e il mio sedere è come se fosse immerso in una piscina, gelata.
Poi arriviamo, scendiamo, siamo zuppi, letteralmente fradici.
Entriamo al rifugio Fedare, è pieno di gente, soprattutto famiglie con bambini, prendiamo qualcosa da bere e una fetta di torta per rifocillarci, poi arrivano Francesco e Giulietta, si torna a casa, una doccia calda, un the e tante parole per ricordare una giornata speciale (continua)

Le mie Dolomiti, pt 2

Siamo arrivati ieri sera a Colcuc, comune di Col Santa Lucia, provincia di Belluno. Neanche una visita al paese viste le dimensioni, un ottima cena e molti discorsi. Malgrado fossero tre anni che non ci incontravamo è come se il tempo non fosse trascorso, Daniela e Francesco sono due squisiti padroni di casa, Elisabetta e Gaia ottime compagne di viaggio e un ottima compagnia.
Il paese è posto su un fianco della montagna, in fondo alla valle c’è Caprile, lontano, ma non troppo, si vede l’imponente sagoma del Gruppo del Sella.
La casa dei Rancan è composta da ingresso, angolo cottura, soggiorno, bagno e due camere da letto, io dormo in una terza camera ricavata nell’interrato che interrato non è.
Siamo andati a dormire prima di mezzanotte, la sveglia questa mattina era fissata per le otto. Finalmente una dormita come si deve.
Facciamo un abbondante colazione, poi è il momento di partire.
Con l’auto ripercorriamo la stradina percorsa ieri sera, ci immettiamo sulla statale, ci dirigiamo e superiamo Col Santa Lucia, quel che si dice ridente villaggio e imbocchiamo la salita che porta al passo Giau, 27 e passa tornanti, una delle salite più celebri del Giro d’Italia.
Il programma di Francesco è quello di salire sulla cima del monte Nuvolau, 2575 metri. Come? Non lo so ancora. Posteggiamo l’auto in mezzo a decine di altre auto, ci prepariamo, io sono indeciso sull’abbigliamento, la caviglia fa sempre male, molto male, brucia e devo stare attento a come l’appoggio.
Poi partiamo: siamo a 2236 metri di altezza, per un centinaio di metri percorriamo una strada abbastanza larga, di fronte a noi la sagoma del Nuvolau, poi diventa sentiero lungo una discesa sui fianchi di un pascolo e per me iniziano i dolori, alla caviglia. Finito il pascolo, il sentiero diventa finalmente sentiero, terra e pietre e malgrado il dolore riesco a godere appieno del paesaggio che mi circonda, una meraviglia.
Il cammino è altalenante, si scende, si sale, laggiù c’è Cortina, quelle sono le Tofane, io scatto, scatto e resto con la bocca aperta, non c’è nulla che mi lasci cosi, beh, no, c’è qualcos’altro, ma non scenderò nei particolari.
Dopo questa prima parte di passeggiata, arriviamo ad un pianoro con vista Tofane. Da qui inizia la salita che ci porterà dapprima ad una ferrata e quindi sulla cima del Nuvolau.
Una ferrata? Ma non l’ho mai fatta in vita mia. Francesco lo sa, ma non sa i miei timori. La caviglia mi duole e non so se utilizzarla come una scusa, Gaia non sta benissimo, è lenta, dobbiamo aspettarla. Ad un tratto ci fermiamo per decidere se proseguire o meno. Taci che forse non si va. Si va. Va bene, sono in ballo e ballerò.
Il sentiero adesso sale, piccolo tornanti che portano ad una sella dove ci fermiamo per imbragarci. Beh, imbragarci, un cordino ed un moschettone. A cinquanta metri da noi c’è il tratto di ferrata che dovremo affrontare: in questo momento c’è un gruppo con elmetti e quant’altro che sta salendo. Mi tremano un po le gambe, la caviglia non la sento, solo bum bum bum, il mio cuore che batte.
Una volta legati cordini e moschettone ci avviamo sullo stretto sentiero che porta ai piedi del tratto da affrontare. Elisabetta è preoccupata per Gaia, Francesco con fare deciso la zittisce, impartisce le ultime istruzioni, mette Giulietta nello zaino, ah dimenticavo, con noi c’è anche Giulietta, il piccolo yorkshire di casa Rancan, e si da il via alle danze.
Prima sale Gaia, poi Elisabetta, poi Francesco con Giulietta che è l’unica che si gode il fantastico panorama ed infine io.
Per ultimo? Avrei preferito essere davanti a Francesco, ma obbedisco, sicuramente ci sarà un perché.
Aggancio il moschettone, metto uno scarpone, poi l’altro, sgancio il moschettone quando arrivo al chiodo, riaggancio il moschettone, un piede, poi l’altro, sgancio, riaggancio, c’è una scala, salgo, finita la scala, mi risgancio e mi riaggancio. Adesso la corda è sul lato destro, non guardo, c’è un precipizio notevole, ma non guardo, l’ho già visto prima di salire.
Ogni tanto do un occhiata ai miei compagni di salita, ma sono concentrato, non sento nulla, non dico nulla, guardo solo dove mettere mani e piedi. Gli ultimi gradini li faccio d’un fiato, mani, ginocchia, piedi, poi sono arrivato.
Wow, che botta di adrenalina, cazzo, possiamo rifarla? (continua)

Le mie Dolomiti, pt 1

Era una vita che Francesco e Daniela mi invitavano a trascorrere un weekend nella loro casa di montagna, ma per un motivo o per l’altro non si riusciva mai ad organizzare.
Il sabato sera prima di Pasqua sto per entrare in un ristorante dell’alta valle per consumare una delle peggiori cene in vita mia quando ricevo una telefonata: è Francesco, ė l’ennesimo invito. Prometto che quest’anno vengo. Ad agosto, dovrò solo mettermi d’accordo con Elisabetta.
Agosto? Ma siamo pazzi? Agosto ė Ascona, ė Torrio, ė valle, ma quando mai io lascio la valle ad agosto?
Rimando il piu possibile la telefonata ad Elisabetta, ma alla fine devo capitolare. Ci mettiamo d’accordo salvo poi modificare le date qualche giorno dopo: partirō dalla valle il 19 di agosto, il 20 e 21 a casa dei Rancan e ritorno il 22, in tempo per il sabato sera con gli amici valligiani.
Qualche giorno prima della partenza mi chiama Francesco: che resistenza hai? hai mai fatto delle ferrate? soffri di vertigini? Manca solo che mi chieda il gruppo sanguigno e la mia posizione preferita e siamo a posto, ma Francesco ė cosi, meticoloso all’estremo.
Sono in valle da ormai dieci giorni quando ė il momento di partire per il Veneto, per queste benedette settantadue ore in terra veneta e invece di essere rattristato nel lasciare il paese, ne sono quasi sollevato: convivo a fatica con l’atmosfera da villaggio vacanza che si ė creato, il clima di festa, le voci urlanti, la musica ed il calcetto che turbano le mie notti. Ma ė colpa mia, con l’eta si cambia e si diventa meno tolleranti, certamente si è più tolleranti quando il problema riguarda gli altri.
Ė un freddo mercoledì mattina quando parto, la caviglia sinistra mi duole da morire, ieri sono stato incauto nel giocare a pallone con i miei paesani, ma non si può neanche sempre dire di no.
Invece di percorrere la SS45, opto per lo Zovallo e la val Nure. Sul passo, oltre a 10 gradi insoliti per la stagione, per un paio di chilometri c’ė nebbia, ma è sono un effetto creato dalle nuvole a bassa quota. Passo accanto al Ragola, mi manca camminare sui suoi pascoli, ma ci tornerō e molto presto. Attraverso Ferriere, Farini, Bettola, prima della grande alluvione del 14 settembre e solo a parlarne mi fa male, pensare a tanta bellezza, a questi luoghi che amo devastati dalla natura. Poi ė viaggio, arrivo a Piacenza e l’autostrada mi porta ad Albignasego, periferia di Padova, il navigatore mi porta sottocasa di Elisabetta.
Ci sono Manuel e Gaia, i suoi due figli: la ragazza verrà con noi. L’avevo lasciata bambina quando ci eravamo visti l’ultima volta, tre anni fa, oggi è una ragazzina, sveglia, intelligente, spigliata. Manuel invece ha finalmente trovato lavoro, forse anche casa e molte sicurezze che arrivano con l’età.
Mangiamo qualcosa prima di partire, decidiamo l’itinerario, Francesco opera nell’ombra e ci da le indicazioni via Whattsapp.
La prima parte del viaggio è attraverso la campagna veneta, tra bellezza e cemento, forse più cemento che bellezza. Castelfranco, Montebelluna, Valdobbiadene, i cartelli indicano le città che sfioriamo, una deviazione a quest’ultimo paese la farei volentieri, ma manca il tempo. Poi entriamo nella valle del Piave, il nostro fiume sacro.
Quando siamo a Busche ci fermiamo per una sosta nel grande negozio della latteria, fatichiamo a trovare parcheggio, c’è gente in fila per comprare formaggio, noi ci fermeremo al ritorno.
Mentre transitiamo nelle vicinanze di San Gregorio nelle Alpi il mio sguardo si posa sulle montagne che sovrastano il paese ed il mio pensiero va al mio bisnonno, Paolo, partito da Roncoi quasi 150 anni fa, a bucare montagne, a costruire gallerie per i treni, senza più tornare in queste terre.
Purtroppo siamo senza navigatore e non sempre le indicazioni sono comprensibili e l’ultima sosta per chiedere aiuto è a Sedico.
In breve superiamo Agordo, Cencenighe, Alleghe, raggiungiamo Caprile e un bivio ci porta verso la nostra meta: qualche tornante, un altra deviazione e un piccolo bivio sulla sinistra, senza alcuna indicazione. Una strada stretta, stretta, molto stretta, due macchine non ci passano, forse neppure un auto e una moto, un paio di chilometri e siamo a Colcuc, quattro case e una cascina, sarà il mio eremo per le prossime tre notti (continua)

Pensieri dalla città

Pensavo. Oggi pensavo che è un sacco di tempo che non scrivo, che non scrivo i miei pensieri, le mie sensazioni, le mie emozioni.
Pensavo che è trascorso quasi un anno da quando ho cambiato nome al blog e così ho deciso di festeggiare cambiando tema e immagine al mio diario.
Pensavo che in questi dodici mesi ho narrato poco di me stesso, ho scritto i racconti delle mie gite, pubblicato qualche poesia e qualche scatto, ma ho parlato poco di me: il pensiero che ci siano delle persone che leggono il blog solo per cogliermi in fallo e per mettermi in cattiva luce mi manda in bestia, crea dentro di me una sorta di corto circuito, poi penso che possono andare a quel paese, che la mia vita va avanti, comunque, è il rischio di mettersi in gioco.
In fondo il blog non perde niente se non racconto certe cose, la sostanza non cambia: ogni nostro comportamento, ogni gesto, ogni parola contribuisce a creare la realtà e quella è, quello siamo, quello siete.
Pensavo che martedì, dopo più di una anno, ho scritto una poesia, dedicata a lei, non riesco a staccarmene: ho sempre scritto che il tempo aggiusta tutto, ma forse non è vero, non so, in qualche modo la cerco ancora, in qualche modo non smetterò di cercarla ed il pensiero di non poterla più vedere, spersa sulle rive di qualche lago o tra le sue montagne, mi uccide.
Pensavo che non ho scritto delle mie vacanze, dei miei giorni in valle, delle mie 72 ore sulle Dolomiti, della festa del paese che finalmente è stato un po più festa grazie ai ragazzi che si sono sbattuti per renderla più festa (scusatemi per il giro di parole). Magari ne parlerò, magari no.
Non ho scritto neanche dell’Expo, visto in compagnia degli amici più amici, ma anche in questo caso, forse ne parlerò, forse no. Ero contrario, l’ho visto e adesso poco dire se avevo ragione o meno.
E poi? Poi pensavo che per il momento è abbastanza, in qualche modo ho ripreso a scrivere, fuori è autunno, piove ed il mio cuore batte ancora.

Disastri

Sono le tre di domenica pomeriggio quando lascio Ascona. In mattinata sulla valle si ė abbattuto un violento temporale e le previsioni indicano un peggioramento in serata.
Parto a malincuore, ma preferisco non rischiare. Quando transito a Carasco ci sono dei tecnici che stanno verificando lo stato della frana abbattutasi sulla ex statale lo scorso autunno: non ci hanno mai messo mano, non ci sono i soldi, di sicuro non sarà la provvidenza a sistemare la cosa.
Sono nel mio appartamento di Genova quando, nella tarda serata, riprende a piovere. Vado a dormire con un senso di angoscia: dopo le alluvioni degli scorsi anni ė come se si fosse rotto qualcosa, paura, timore, ansia, non so.
Nella notte il rumore della pioggia aumenta e poi tuoni che interrompono il frastuono dell’acqua che scende e lampi che squarciano il buio e il vento, ci mancava pure quello.
In qualche modo riesco a dormire, ma non è quello che si dice un sonno ristoratore.
Mi sveglio la mattina e apro il tablet: leggo di danni causati dall’ennesima bomba d’acqua caduta nella notte, a Genova, a Montoggio, in riviera, in val d’Aveto. In val d’Aveto?
Provo a chiamare i miei, ma il telefono ė isolato, chiamo la Rita e mi dice che ė successo il finimondo, che a Cabanne ė un macello, che Luciano doveva andare a Chiavari, ma tutte le strade sono interrotte. Mi fa chiamare dai miei, stanno bene, il paese ė integro e anche la strada, per fortuna, ma la nostra fortuna non mitiga il dolore degli altri.
Arrivo in ufficio in ritardo, il sottopasso di Brignole ė chiuso, c’e fango, tutte le belle parole non sono servite a nulla, contro la natura non c’è un cazzo da fare.
Nell’ora di pausa mi dedico alla navigazione sul web: non solo la val d’Aveto, ma anche la val Trebbia e la val Nure sono state colpite e forse ancora più duramente. Farini ė stata quasi spazzata via, Bettola ha subito dei danni paurosi, le strade di fondovalle non ci sono più, ci sono dei dispersi che col passare delle ore non lo saranno piû, ma diventeranno delle vittime del maltempo.
Sui social network iniziano a girare le notizie, le fotografie ed ė una lunga sequela di disastri: sgomberata la casa di riposo a Cabanne, dove è pure dispersa una mandria di cavalli, interrotta la ex statale a Carasco, ma guarda un po, interrotta la Scoglina, isolata Orezzoli e in più senza acqua potabile, Ottone è semi devastata, interrotta la strada che porta a Cariseto, interrotta la ex statale che porta a Bobbio, Castagnola e Cattaragna sono isolate, un ponte crollato a Ferriere impedisce il transito verso Selva, Torrio e lo Zovallo, ci sono frane ovunque e quella caduta nell’inverno a Ruffinati è venuta giu di nuovo.
Ė uno stillicidio, una lista che non ha fine. Vedi le immagini ed ė dolore, rabbia, impotenza, la natura si ė accanita contro la terra, le nostre terre, le valli che amo. In televisione inizia la passerella di quelli che sanno tutto, degli ambientalisti della prima ora, dell’ultima ora, degli anti ambientalisti, ė colpa di qui, ė colpa di la, ma c’è poco da dare colpe, la colpa è solo dell’uomo, del clima che ė cambiato, che l’uomo ha contribuito a cambiare.
Mi tornano in mente dei post che avevo scritto nel 2012 quando parlavo di queste terre bellissime, destinate all’abbandono, alla sparizione e vedo le immagini dei tronchi trascinati dalla piena del Nure e penso ai boschi abbandonati, all’uomo che non c’ė più, a questi paesi svuotati dalla vita, poi guardo le immagini delle frane, delle pietre, dei massi trascinati sulle strade e penso che a quello non c’era rimedio, cemento o non cemento, viviamo e amiamo una terra bellissima, ma fragile, le terre abbandonate.

Cattaragna

Cattaragna

Nella Valle Tribolata

E’ un caldo pomeriggio di agosto, i miei compaesani sono in gita a Prato Mollo, io sono stato sabato sull’Aiona e non mi andava di ripetere lo stesso sentiero, cosi in mattinata sono andato a fare un giro a Bardi.
Sono passate da poco le due quando scendo in strada e incontro Abi. Lui vorrebbe andare a fare un giro con il cane, io vorrei attraversare la Valle Tribolata e scendere verso Torrio. La mia idea gli piace, verrà anche lui insieme a Giampaolo.
Dopo una mezzora partiamo, siamo in cinque, noi tre e i loro due cani.
La salita che porta al cimitero è faticosa come sempre, lo sarà sempre, ovunque tu debba andare ti stronca le gambe prima del dovuto.
Il cane di Abi, Zorro, è un anarchico: abbiamo appena superato il camposanto e lo abbiamo già perso. Chiamalo una volta, chiamalo due e alla fine il padrone deve andarlo a recuperare e a quel punto inizia il martirio di Dexter, il cane di Gian.
In breve siamo alla cappelletta della Guardia che domina dall’alto il paese, un sorso d’acqua e via.
La mia idea era quella di salire al monte di Mezzo, prendere il sentiero per il Groppo Rosso e deviare per la Valle Tribolata. I miei compagni di avventura consigliano di dirigerci verso Torrio e fare il giro contrario per approfittare dell’ombra del sentiero. Così sarà.
Il sentiero per Torrio è quasi tutto in piano e all’ombra, attraversiamo il primo, il secondo e quindi il terzo canale che è in uno stato pietoso con i tubi dell’acquedotto completamente scoperti.
Dopo il quarto canale è questione di pochi minuti arrivare ai Serzetti o se preferite Torrio Casette, il primo agglomerato di case della frazione di Ferriere. Quando arriviamo alle Case di Sopra ci fermiamo un istante a bere ed in breve riprendiamo la via.
Superato il campo di calcio, attraversiamo la strada ed imbocchiamo il sentiero segnato che porta al passo del Crociglia e da qui alla statua dell’Angelo. L’ho percorso interamente domenica per la festa al Monte, massacrandomi nel seguire Sylvie e Fabrice. 50 minuti dal campo alla statua. Da non ripetere!
Oggi il passo è molto più rilassato, parliamo, scherziamo, i cani giocano tra di loro anzi quello che gioca è Zorro, Dexter subisce con straordinario aplomb.
Una volta arrivati alla Rinazza, l’acquedotto di Torrio, imbocchiamo il sentiero insegnatomi dagli amici torriesi per arrivare ai piedi della Ciapa Liscia. L’ho percorso una volta quattro estati fa, lo ricordo a malapena anche perchè non è segnato, ma dovremmo riuscire a non perderci.
Dopo poche centinaia di metri il sentiero si perde nel bosco che si stende nella piccola piana alluvionale creatasi ai piedi della Ciapa Liscia. Camminiamo tra i faggi sino a quando arriviamo ad un passaggio tra le rocce che ricordavo. A questo punto dovremmo buttarci sulla sinistra e andare a recuperare il sentiero che scende dalla Rocca Marsa.
I miei compagni decidono di salire direttamente sulle rocce: pochi metri ed il cane di Giampi tocca un mio scarpone e perde l’equilibrio cadendo tra due rocce. Attimo di panico, ma la fenditura non è particolarmente profonda ed il padrone riesce ad estrarre l’amico a quattro zampe.
L’idea di saltare da una roccia all’altra non è delle più brillanti, ma in breve ne usciamo, recuperiamo il sentiero ed in pochi minuti siamo sul prato ai piedi della Ciapa Liscia, la Gera Grande. E’ uno spettacolo, come sempre ne resto estasiato, come sempre scatto decine di fotografie già scattate nelle precedenti occasioni, ma non posso farci nulla, è più forte di me.
Dopo esserci dissetati alla sorgente che sgorga tra le rocce, ci fermiamo qualche attimo all’area di ristoro dopodiché ripartiamo addentrandoci nel piccolo bosco di faggi che porta alla Valle Tribolata.
I segni dell’inverno sono evidenti cosi come i mancati interventi dell’uomo.
In poco meno di cinque minuti arriviamo al grande accumulo di rocce. C’è silenzio ed il vento che soffia tra le rocce e la corsa dei cani, un cielo fantastico sopra un luogo che ha pochi uguali, sicuramente il più affascinante di tutta la valle.
Dopo le foto e le considerazioni di rito siamo di nuovo in marcia: è lontano quel giorno di ottobre del 2011 quando in compagnia di Abi e Camilla salii sul Groppo Rosso dopo la bellezza di 25 anni. Da quel giorno mi sono riappropriato del mio tempo, dei miei passi, in qualche modo della mia vita.
In breve scendiamo sul sentiero che porta al passo del Bocco e da qui sulla montagnola che chiamiamo “La Priosa”: il percorso è sporco, anche in questo caso è lontano il giorno in cui su queste pietre transitavano i più grandi campioni del mondo di trial. Piaccia o meno, ma anche quello è un modo di tenere puliti e vivi i sentieri.
Una volta ai piedi del monte di Mezzo siamo arrivati: imbocchiamo la carrareccia che porta al paese, una deviazione sul vecchio sentiero e finalmente siamo ad Ascona, finalmente casa.

Ramaceto, sui sentieri della resistenza, pt 2

La giornata è calda, caldissima, c’è foschia, ma in qualche modo si vedono la penisola di Sestri Levante, Lavagna, Chiavari ed il promontorio di Portofino, una bella vista, comunque emozionante.
In una decina di minuti ci ricompattiamo, il tempo di fare qualche fotografia, scambiarsi le prime impressioni ed è l’ora di mettere qualcosa sotto ai denti.
Una parte dei gitanti opta per rimanere sulla cima del monte, una parte decide invece di scendere nell’area ristoro posta nell’ombra del bosco di faggi a pochi metri di distanza.
E’ un lungo tavolone quello che ci aspetta, lo stesso che usano per la festa che si celebra la prima domenica di luglio: almeno quaranta posti, lastre di ardesia pronte per cuocere la carne, una griglia per l’asado, peccato manchi solo l’acqua.
Mentre le donne chiacchierano del più e del meno, gli uomini disertano su come copiare e riprodurre la stessa struttura nel bosco del Crociglia.
E’ passata l’una da pochi minuti quando ci rimettiamo in marcia: non torneremo sui nostri passi, percorreremo invece l’anello del monte. Non ho ben presente il percorso, ma poco importa.
Adesso il sentiero percorre una parte dell’alta via dei Monti Liguri, camminiamo sul ciglio di strapiombi a picco sulla val Cichero, tra sassi, fiori e faggi.
La vista è fantastica come l’emozione di camminare in un tratto d’appennino cosi suggestivo. Il sentiero, che segue la cresta del Liciorno, prima di arrivare al bivio che riporta nel bosco è lungo, il sole non ci aiuta nel nostro cammino, ma finalmente arriviamo anche li. Siamo sullo spartiacque dei bacini dell’Aveto e dello Sturla.
Adesso il percorso scenderà verso il passo della Forcella protetto dall’ombra del bosco, in un silenzio rotto solo dai nostri passi, dai nostri respiri, dalle poche parole che escono dalle nostre labbra: fa caldo anche tra gli alberi ed è meglio risparmiare ogni energia anche perché molti sono a corto del carburante più importante, l’acqua.
Il sentiero è ben segnato, arriviamo ad un bivio e dopo qualche centinaia di metri arriviamo all’acquedotto che immaginiamo essere quello di Acero e tutti fanno scorta del prezioso liquido, è un apparizione, l’oasi nel deserto.
Riprendiamo il cammino e arriviamo ad un quadrivio, un breve consulto con la nostra guida a distanza ed in breve arriviamo all’area di ristoro della Crocetta che avevo fotografato in mattinata. Verso di noi avanza una mandria di mucche, allungo un braccio verso una di queste per accarezzarla e questa cerca di incornarmi, dovevo immaginarlo, tipica accoglienza ligure.
Ci accampiamo per una decina di minuti, chi beve, chi mette i piedi a bagno, chi prosegue invece nel suo personale calvario verso Ventarola.
La sosta dura almeno un quarto d’ora, più del tempo che manca per fare rientro alle auto.
Poi è il momento di rimettersi in marcia, verso le auto, questione di pochi minuti di cammino e siamo nuovamente al posteggio. Grazie alle moderne tecnologie un applicazione ci indica quanta strada abbiamo percorso, 14,4 chilometri.
Prima di tornare a Torrio c’è ancora il tempo però di godersi il meritato premio, bere tutti insieme una bella birra ghiacciata in un bar di Cabanne e fare le prime considerazioni su di una bella giornata, sicuramente da ripetere.

Ramaceto, sui sentieri della resistenza, pt 1

Era una delle ultime cime della valle sul mio taccuino, ma mancava sempre la compagnia giusta o l’occasione.
Lo scorso maggio ricevo la mail con il programma estivo delle manifestazioni del circolo La Scuola di Torrio: sabato 18 luglio, escursione al monte Ramaceto, sui sentieri della Resistenza. Mi appunto la data, non potrò mancare.
L’appuntamento è per le sette e mezza presso il circolo del paese, arrivo con qualche minuto di ritardo e trovo già un bel numero di partecipanti, ma fortunatamente non sono l’ultimo.
Sono passate da poco le otto quando ci muoviamo alla volta di Ventarola, piccola frazione di Rezzoaglio, da dove parte uno dei tanti percorsi che conducono sulla cima del Ramaceto.
Una volta posteggiate le auto nel piccolo parcheggio del paese, ci mettiamo finalmente in marcia, sono le nove, come da programma, in totale siamo in diciotto, dai quindici ai settant’anni o giù di li, un bel numero di persone, fa piacere che l’iniziativa abbia riscosso successo.
Il sentiero attraversa le case del piccolo villaggio, un tempo dogana tra la repubblica di Genova ed il marchesato di Genova, passiamo accanto al rifugio recentemente ristrutturato, una cappelletta votiva, un guado lungo un piccolo corso d’acqua che lambisce le ultime case del paese e ci addentriamo in mezzo a prati tagliati di recente.
Il passo non è dei più veloci, ma per nostra fortuna non dobbiamo rispettare alcuna tabella o stabilire alcun record.
Il percorso si snoda inizialmente sul fondovalle accanto ad un piccolo corso d’acqua, quando arriviamo all’area di ristoro della Crocetta il sentiero segue il torrente che scende nella valletta di destra.
Dopo una breve passeggiata sempre lungo il fiumiciattolo, una decisa svolta sulla destra ci conduce nel bosco con il sentiero che inizia gradualmente a salire.
Il gruppo ora è un po slegato, i più giovani hanno il passo più veloce mentre i meno giovani la prendono con più filosofia tra un discorso e l’altro, godendo del fresco che il bosco di faggi offre.
Dopo quasi due ore di cammino finalmente usciamo dal bosco e arriviamo sulla Bocca di Feia da qui si vedono i tornanti che portano al passo della Scoglina, la chiesa di Barbagelata, i piccoli paesi nella valle da Monleone a Favale e le cime delle valli che portano al mare.
Ci fermiamo per una sosta di qualche minuto, c’è chi si disseta, chi mangia un frutto, chi scatta fotografie.
Dopo la breve pausa riprendiamo il cammino: ora il percorso è in salita ed esposto completamente al sole ed il gruppo si sgrana in un attimo.
Ai nostri piedi, sulla nostra destra, appare Lorsica, piccola capitale della seta e dei damaschi, quindi la valle di Orero, e sole, tanto sole, non è poi così breve il percorso per la vetta che non vuole mai fare la sua comparsa.
Dopo quasi mezzora di cammino finalmente appare la cappelletta posta sulla vetta del monte, 1320 metri sul livello del mare, stessa altezza del monte di Mezzo, la vera vetta del Ramaceto è una cima poco lontano.
Oltre alla cappella, eretta come ex-voto da parte di un valligiano dopo essere stato catturato dai tedeschi nella seconda guerra mondiale, sul monte vi è un piccolo altare in memoria di due alpinisti liguri morti in Alaska nel 1992.
I primi arrivati si sistemano su un piccola cima a picco sulla valle che si apre ai nostri piedi, la val Cichero, resa celebre dalla famosa brigata partigiana: nei piccoli paesi di questa valle trovarono rifugio coloro ai quali dobbiamo la nostra libertà … (segue)

Welcome

E’ un onda che nessuno può arrestare, è l’onda dei migranti che arrivano dall’Africa e dal Medio Oriente, che cercano di raggiungere i parenti o gli amici nei paesi del Nord Europa.
Popolazioni alla fame, allo stremo, vittime di dittature, guerre o carestie, un onda sulla quale si arricchiscono i mercanti di morte, che le nostre coscienze respingono, il loro dolore, la loro forza, ne siamo impermeabili, forse non ci fanno neppure più effetto i barconi che affondano nel canale di Sicilia.
E’ la storia del mondo: flussi di persone che si muovono, da un paese all’altro, da un continente all’altro, in cerca di un futuro migliore, di condizioni di vita migliori, una storia che si ripete dall’antichità, che non avrà mai fine.
Così, dopo avere visto un bellissimo corto sui migranti sul sito di Internazionale, oppresso dal caldo di questa rovente estate e dal deserto televisivo, qualche sera fà mi sono deciso a riguardare un piccolo gioiello del cinema francese, Welcome.
La storia, ambientata a Calais, città francese balzata appunto agli onori delle cronache estive per gli innumerevoli assalti dei migranti ai Tir diretti oltre Manica, racconta di Bilal, un ragazzo curdo iracheno che cerca di ricongiungersi alla fidanzata che vive a Londra.
Dopo aver cercato di traghettare illegalmente, in piscina fa la conoscenza con Simon, cinquantenne alle prese con la separazione dalla moglie, interpretato da un magistrale Vincent Lindon.
Dopo le diffidenze iniziali, Simon aiuterà Balil nel tentativo di raggiungere le sponde inglesi, scontrandosi a sua volta con le leggi francesi e l’atteggiamento ostile dei vicini di casa.
Nella sua drammaticità il film è bellissimo, coinvolgente, nel raccontare il rapporto tra due esseri umani, uno spinto dall’amore verso la fidanzata da raggiungere e l’altro sommerso dai flutti di un amore mai spento. Un atto di accusa verso i governi, verso leggi aberranti, verso le nostre coscienze o peggio ancora verso la nostra indifferenza.

Welcome

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