I giorni che amo di più

Ci sono giorni che non vorrei vivere,
sono quelli in cui mi sei accanto
e te ne vai.
Sono quelli in cui
il tuo corpo è accanto al mio,
ma non sei mia.
Sono quelli in cui
il tuo profumo inebria i miei sensi
e mi stordisce
e mi trasporta
e mi tradisce.
Sono quei giorni in cui
la tua voce è la mia musica
e mi esplode dentro
e mi porta a te,
che mi respingi.
Ci sono giorni che non vorrei vivere
per il dolore che danno,
sono i giorni che amo di più,
sono i miei giorni con te.

scritta a Genova nel settembre 2003

Anello del monte Nero

Venerdì di metà luglio: esco dall’ufficio all’una grazie alla proposta dei miei titolari di accorciare la settimana lavorativa per questo ultimo mese di lavoro. Ottima intuizione, anche se come al solito qualcuno non è d’accordo, ma mi stupirei se non ci fossero i soliti bastian contrari.
Arrivo in paese che sono passate da poco le due e mezza, mangio un boccone e decido di andare a fare due passi: il pomeriggio è fantastico, anche se è caldo, caldissimo, ma spero che in quota la temperatura sia meno rovente.
Alle quattro in punto posteggio l’auto al passo dello Zovallo e mi dirigo verso il lago Nero, è un classico delle mie escursioni e quest’anno non ho ancora timbrato.
La passeggiata è una delle più semplici tra tutte quelle che si sviluppano tra val d’Aveto e Val Nure, già, perché che piaccia o no, qui siamo sul versante piacentino dell’Appennino. Il sentiero corre nel bosco ai piedi del monte Nero, costeggia una primo prato di piccole dimensioni, quindi dopo un brevissimo tratto di terreno sconnesso affianca un secondo vasto prato, memoria di un antico lago glaciale situato proprio sotto al monte. Da qui una salita dapprima su un sentiero sterrato ed infine su di un tratto roccioso porta al lago, nascosto da una fitta vegetazione.
Sul sentiero incontro soltanto una ragazza sulla via del ritorno mentre nell’area di ristoro posta sulle rive del lago cinque ragazzi mi chiedono di scattargli una foto.
La luce non è delle migliori e inoltre ho dimenticato il treppiede nel bagagliaio dell’auto, cosi non mi trattengo più di tanto.
Dicono che l’appetito vien mangiando, alzo gli occhi verso il monte Nero ed in un attimo mi ritrovo sulla via verso la sella della Costazza.
Fino a questo punto l’escursione è stata piacevole, la maggior parte della passeggiata è stata all’ombra e nel bosco la temperatura non era particolarmente alta. Adesso, una volta arrivato sulla sella, il sentiero è sotto al sole e prosegue tra le rocce che caratterizzano il monte.
Quando sono sulla prima delle due creste che portano alla vetta incontro un primo escursionista, in breve arrivo alla seconda cima e poco dopo al cavo che aiuta ad arrampicare la piccola parete rocciosa che introduce all’ultima salita prima della vetta.
Come sempre faccio molte fotografie, poche in verità al lago in quanto completamente baciato dalla luce del sole. Mi trattengo pochi minuti sulla cima, sono solo, circondato dal silenzio e dal profumo dei pini mughi, baciato dal sole e da una leggera brezza apparsa all’improvviso. Mi fermerei per ore in questo paradiso tra terra e cielo, ma devo rientrare, domani mi aspetta un altra, lunga, faticosa escursione.
Prima di scendere verso il passo incontro un altro escursionista, scambiamo due parole, scatto un ultima foto al mio amato Ragola e imbocco la ripida discesa che mi riporterà allo Zovallo e per quanto metta a dura prova le ginocchia è sempre meglio che percorrerla in salita.
Lapalissiano direi!

il giorno dei cinque passi, pt 2

Finalmente trovo la casa dei miei amici, posteggio, mi disseto ad una fontana nelle vicinanze e aspetto i padroni di casa che arrivano poco dopo.
Mi fanno fare il giro dei loro possedimenti, della casetta prefabbricata dove vivono i genitori di lui, mangiamo sotto un portico.
Il pomeriggio scorre piacevolmente, tra i bagni delle bambine nelle piccole piscine di plastica e tante piacevoli conversazioni.
Dopo aver festeggiato i compleanni delle bimbe, sono ormai passate le sei e decido di tornare in valle: io, a Genova, con questo caldo, non ci torno.
Saluto i padroni di casa per la squisita accoglienza e parto.
Decido di scoprire nuove vie: sulle cartine ho visto che c’è la possibilità di passare a Varese Ligure, svalicare, scendere a Bedonia, fare il Tomarlo ed essere di nuovo in valle.
Il navigatore mi indica subito la strada. Il primo paese che incontro è Ziona, ma prima ancora incontro un motociclista piegato completamente nella mia corsia, si riporta a fatica sulla sua mano, si rialza, è un ragazzino, ora con lo sguardo impaurito. Non suono, non urlo, non bestemmio, è andata bene così.
Il Tom Tom mi fa transitare a Ponte Santa Margherita, poi nelle vicinanze di Sesta Godano e di Buto, celebrato paese regno del fungo porcino ai piedi del Gottero.
Non c’è praticamente traffico. Anche qui le strade ai lati sono sporche mentre l’asfalto è meno peggio che da altre parti.
Finalmente incontro un altro paese, San Pietro Vara, qualche motociclista, qualche anziano seduto ai lati della strada, poche centinaia di metri e ne sono fuori.
Adesso posso spegnere il climatizzatore, il finestrino abbassato, la radio accesa, naturalmente su RadioDue e nessuna fretta.
Non impiego molto ad arrivare a Varese Ligure, vi ero stato una volta per lavoro, mi piacerebbe fermarmi a fare un giro, ma anche se non ho fretta, non ho voglia di arrivare troppo tardi.
Una volta superato il paese, inizia la salita per il passo del Cento Croci, il mio terzo valico appenninico del giorno, dopo la Forcella ed il Bracco.
La strada all’inizio non è particolarmente larga, sporca ai lati, qualche auto che scende in senso contrario. Come al solito il meglio deve venire. Più salgo e più cambia il panorama: quando sono nei pressi di Caranza si iniziano ad intravedere le cime dei monti, anche quelli della valle, il Penna ed il Pennino, mi sembra di sentire aria di casa. Ancora qualche tornante e la strada si apre su una grande vallata, l’erba tagliata, i prati puliti, le sagome di una, due, sei grandi pale eoliche, le stesse che si vedono ad occhio nudo dalla vetta del Penna. Mi fermo a fotografare il panorama, non le pale in quanto sono controluce anche se una volta sul passo un tentativo lo faccio.
1055 metri, altino, anche se non sarà il passo più alto del giorno.
Adesso è discesa, verso Bedonia. Poche centinaia di metri e sulla sinistra appare l’Albergo Cento Croci, chiuso, abbandonato, fatiscente, un altro esempio di un mondo che è stato, che non c’è più, quando soggiornare a La Squazza, al Bracco, sul Cento Croci era villeggiatura. Oggi le nostre possibilità ci portano in ogni dove nel mondo ed il nostro paese va a ramengo.
Arrivo a Tarsogno, svolto per Tornolo, un bivio e mi ritrovo sulla strada che porta sulla statale che arriva dal Bocco, una volta in fondo giro a destra e dopo pochi minuti è Bedonia. Una volta nelle vicinanze del campo sportivo mi accorgo che ci deve essere qualche fiera, qualche sagra davvero importante: i prati davanti alla basilica sono colmi di auto e di giovani posteggiatori.
In pochi minuti raggiungo il passo di Montevaccà, non mi ricordavo ci fosse anche questo passo sulla mia strada. Supero Ponte Ceno, Anzola e inizia l’ultima salita, il Tomarlo.
Tornante dopo tornante, il Penna che mi osserva silenzioso, poche, pochissime auto in senso contrario, l’aria adesso è frizzante, la pelle finalmente torna a respirare dopo la calura della riviera.  Qui lo stato del fondo stradale non è malvagio a parte un tratto di sterrato degno di una paese del terzo mondo, i bordi sporchi naturalmente, ma anche questo non è una novità.
Sono le otto passate quando raggiungo il passo, un ultima foto e via verso casa, verso il paradiso, con il ricordo di un bellissimo pomeriggio trascorso con bellissime persone.

Il giorno dei cinque passi, pt 1

Quando sono in valle, nella mia valle, nel mio paese, il solo motivo che mi obbliga a spostarmi è il ritorno a Genova, la domenica sera o meglio ancora al lunedì mattino.
In passato ci riuscivano le fidanzate e magari sarà così anche in futuro, prossimo o remoto chi lo sa.
Lunghi viaggi verso Mirano o Chiavenna, ma ne valeva la pena, così come ne è valsa la pena scendere verso la riviera la scorsa domenica: un invito da parte di una coppia di amici per festeggiare il compleanno delle figlie in un paesino in provincia di La Spezia. Non mi muoverei mai dalla valle, ma per gli amici, quelli veri, vale la pena.
Così, alle nove meno qualcosa di una calda domenica d’estate, parto, direzione Mattarana.
Viaggio, senza fretta, il finestrino abbassato, la temperatura è gradevole, una compilation a farmi compagnia.
Una volta arrivato a Cabanne comincio ad incrociare auto che viaggiano in senso opposto, che scappano dal caldo della riviera, oltre ad imbecilli che guidano in modo scellerato. Sulla piana accanto al fiume hanno tagliato il fieno ed è uno spettacolo ed un tuffo nei ricordi d’infanzia.
Ad un tratto inizio ad incrociare ciclisti, pochi all’inizio, poi, una volta superato il passo della Forcella, affollato di persone come mai ho visto in vita mia, sempre di più.
Da soli, in compagnia, giovani, anziani, donne, ragazze, anche parecchio carine se mi consentite: mi ricorda, con le dovute proporzione, il pellegrinaggio di amanti delle due ruote lungo i tornanti dello Stelvio.
Poche centinaia di metri prima di arrivare a La Squazza incrocio Toni, nella sua solita elegante camicia azzurra, alla guida della corriera, supero l’albergo abbandonato, simbolo di un mondo che fu e scendo verso Borzonasca.
Non so quanto impiego ad arrivare a Chiavari, tanto tempo, ma non importa.
Mentre faccio gasolio si ferma un signore in scooter che mi fissa ed esclama “Garelli“, lo guardo attonito e lui di rimando “Non mi riconosci, sono Luciano“. La mia risposta è un “Ma va a cagare!” che tutto sommato non c’entra niente.
Cribbio, Big Jim in persona, saranno almeno vent’anni che non lo vedevo, dai tempi delle indianate a Pievetta, sempre uguale, abbronzato, palestrato, stessi capelli, un figlio che lo aspetta sullo scooter. Che sorpresa!
Restiamo qualche minuto a parlare, mi dice che viene sempre su a sciare, l’avessi incrociato una volta.
Ci diamo appuntamento per il prossimo inverno e mi saluta con un “Ciao Silvo” di altri tempi.
Potrei prendere l’autostrada, ma è un giorno senza fretta, dedicato a me stesso, agli amici, al mio tempo e decido così di percorrere la statale.
Attraverso Lavagna, Cavi, Sestri, vedo famiglie scendere dalle auto e dirigersi verso le spiagge, in cerca di refrigerio, sicuramente non in cerca di tranquillità.
Imbocco la salita del Bracco, lontani i tempi in cui andavo con lei e gli amici da Casaggiori, ma non ho nostalgia, il tempo passa e fa il suo corso.
Viaggio, tranquillo, senza pensieri, adesso il finestrino è chiuso, climatizzatore acceso, musica, luce d’estate.
Poche macchine, poche moto, il navigatore mi indica che ho superato il limite, sono a 40 all’ora, il limite è 30, all’ingresso del paese di Bracco, senza un cartello, nascosta come il peggiore dei ladri, c’è una pattuglia con l’autovelox, vaffanculo, non me ne frega niente, all’uscita del paese un cartello indica la fine del divieto dei 50.
Multa o non multa? A fare in culo, non importa.
Sono su una delle strada più celebrate d’Italia, ma non c’è particolare traffico, anche poche moto, lo stato dell’asfalto in alcuni punti non è il massimo, i bordi sono sporchi, incrocio costruzioni abbandonate, il turismo si è spostato altrove, il progresso, ma anche tutti i governi, tutte le amministrazioni hanno distrutto un paese, un economia. Questa, come altre strade, sono il simbolo di un paese che è stato, che non c’è più.
Sono le undici quando arrivo a destinazione, posteggio davanti alla trattoria celebrata sul sito del paese, riordino le istruzioni, cerco la strada, non sono sicuro e alla fine devo chiamare… (segue)

La sottile linea

Domenica mattina: il paese è il solito silenzioso paradiso, chi doveva andare a Santo per l’aperitivo, per la spesa, è già andato, chi è rimasto è in casa, affaccendato nei soliti lavori o a riposare, magari a fare due passi, come me.
Sono le dieci passate quando incammino sullo stradone e mi immergo nelle magie che solo questa stagione può regalare, avvolto dal silenzio, dai rumori della natura, dalla luce dell’estate.
Più mi allontano dal paese e più mi sembra di essere il protagonista di un film di Terrence Mallick: sono la voce narrante, errante, dei miei pensieri, del mondo che mi circonda, dei suoni, dei profumi, delle piccole visioni, delle mie sensazioni. Una sottile linea che mi divide dal paradiso.
Porto con me la K3, ma non la userò, certe cose restano negli occhi, nei propri sensi, dentro di noi, non ci sono fotografie che possano dare l’idea del momento.
Quando arrivo al baraccone di Mario mi giro a guardare il paese: appena sopra la chiesa si vedono i primi prati tagliati, nell’aria intenso il profumo del fieno, dove non è stato ancora falciato è piegato dal vento, mi piace la luce che emana, mi riporta a giorni lontani, a ricordi d’infanzia, dell’innocenza, perduta, di ginocchia sbucciate, di giornate ai pascoli, di pane con la Nutella e corse sfrenate sulle Piane.
Cammino lentamente, senza fretta, la strada è ancora ombreggiata, il sole la batterà nel pomeriggio, cammino, circondato dal cinguettio degli uccelli, osservo il volo di tre poiane sopra il canale del Fussou Croesu, il loro volteggiare lento, concentrico, quasi una danza, in attesa dell’attacco, della caccia alla preda, della morte.
Di tanto in tanto rumori ai lati della strada mi distraggono dai miei pensieri, è incredibile quanta vita ci sia, invisibile ai nostri occhi.
Quando arrivo all’altezza dei Ronchi odo il rumore di un animale che fugge, forse un capriolo, forse lo stesso che avevo visto una settimana fa. Non so. Prima o poi riuscirò ad immortalarne uno: venerdì sera ne ho incontrati cinque nel giro di pochi chilometri, ma sempre più veloci dei miei riflessi nel prendere la Pentax.
Portato dal vento arriva il suono delle campane della chiesa di Vicosoprano: ieri, ad Alpepiana, ai funerali di Luigi, erano presenti Massimo, Pino e altri amici. C’erano persone da tutti i paesi della valle, per dare un saluto, lasciare un segno, un atto di presenza, di rispetto. Per molti, oltre che l’occasione per dare l’ultimo saluto, un modo per incontrare amici che non si vedono da tempo.
Alla Pianella devono ancora tagliare il fieno, la frana sembra non essersi più mossa, a settembre avevano sistemato tutto, fatto il muretto, messo il guard-rail, non so per merito di chi, ma alla fine è stato fatto un discreto lavoro, non pensavo, sbagliavo.
Arrivo a Pozzo: sul prato l’erba non è ancora stata tagliata, tre settimane fa c’erano fiori di ogni colore e profumo, adesso non più, solo le scie degli animali transitati sul campo. Ancora qualche settimana e torneranno i bambini, la gioia, l’allegria, le risate. Adesso no, ci sono solo il Penna e l’Aiona che osservano silenziosi, lontani, maestosi, imponenti, che mi chiamano. Tornerò anche là, ma oggi no, oggi i miei pensieri restano qui, a casa, sulla sottile linea che mi divide dal paradiso.

I giorni del fieno

I giorni del fieno

New York (1 Luglio 2009)

Alle dieci e venticinque una voce annuncia che iniziamo la discesa verso l’aeroporto La Guardia, sempre nel Queens, più a nord rispetto al JFK. L’atterraggio è la parte più bella del viaggio: una volta lasciato il mare sorvoliamo i quartieri periferici di New York, si vedono distintamente le case e le auto, in lontananza si vede Manhattan, passiamo sopra le autostrade intasate, sopra un cimitero e finalmente l’atterraggio. Un quarto d’ora in anticipo, peccato  ci sia traffico e che il nostro bocchettone sia occupato, cosi sbarchiamo venti minuti più tardi.
Il La Guardia è un po’ incasinato, si esce dai tunnel per ritrovarsi in mezzo ai passeggeri in partenza per poi arrivare nell’area di sbarco dei bagagli. In un angolo ci sono pile di valigie smarrite o di voli precedenti, dinanzi a noi passano diverse valigie sfondate, Orietta dice di aver visto solo la mia sui carrelli, mi consolo. Finalmente arrivano anche i bagagli del nostro volo, prendiamo le nostre valigie e usciamo da questa bolgia, siamo a New York.
Seguiamo gli altri passeggeri, arriviamo nella hall e ci guardiamo intorno per capire dove siano i taxi: appoggiati ad un bancone ci sono due signori con la camicia bianca, uno ci chiede se ci occorre un taxi e Orietta dice sì. L’uomo le prende la valigia e dice di seguirlo, quanto costa, cinquantacinque dollari, io sapevo trentacinque, mi giro e vedo sulla destra l’enorme parcheggio dei taxi, è sicuro di essere un tassista? Certo, lavoro in proprio, a me la cosa non va, rompo le palle e Orietta gli dice che abbiamo cambiato idea e si riprende il bagaglio. Arriviamo al parcheggio dei taxi, c’è addirittura un addetto che regola l’afflusso di passeggeri e auto. Saliamo su non so quale tipo di auto, diciamo all’autista dove dobbiamo andare, gli diamo anche il foglio con la prenotazione, questo non ha la minima idea di dove sia la 55 strada.
E’ arabo, inizia ad impostare il navigatore nella sua lingua, ma non riesce, attraversiamo il Queens, arriviamo ad un ponte a pedaggio, probabilmente siamo nel nord di Manhattan, forse ad Harlem. Scendiamo verso sud, questo smanetta nel navigatore, sempre in arabo e non ottiene riscontri, ormai siamo nella zona di Central Park, l’albergo è davvero vicino, finalmente utilizza l’inglese e d’incanto arriviamo, quarantadue dollari, con la mancia, ad essere genovesi, rompipalle e diffidenti ogni tanto si fa la cosa giusta.
Entriamo in albergo, il Da Vinci e alla reception ci dicono di lasciare i bagagli, la camera non è ancora pronta, ci vorranno almeno due ore, ne approfitteremo per andare a mangiare: Cioppi vorrebbe entrare nel primo locale, io dico di aspettare, Orietta anche, ma forse perché ha fame anche lei o per andare incontro a Gianluca, decide di entrare nel secondo locale che incontriamo. E’ una pizzeria italiana con tanto di bandiera, da Luigi’s. Di Italia e di italiani neppure l’ombra, sono colombiani con tanto di bandierina dietro il banco, ma il marchio Italia sicuramente vende meglio. Ordiniamo una pizza normale, pomodoro e mozzarella, il cameriere si stupisce che non aggiungiamo altro, noi ne vorremmo tre, lui gentilmente ci consiglia di prenderne una sola, la large. Ha ragione perché alla fine ne lasceremo pure una fetta; paghiamo un inezia, quindici dollari e ci dirigiamo verso Central Park a fare due passi. Intanto notiamo la prima differenza con le altre città dove i semafori avevano il conta secondi, qui no, la gente attraversa sempre, appena non passano auto i pedoni si lanciano e attraversano la strada, i taxi suonano sempre e agli incroci transitano come pazzi. All’esterno del parco ci sono molti ragazzi, giovani, che ti propongono di fare un giro sulle biciclette con la carrozzella. All’interno è un oasi, ci sono persone di tutte le età che corrono, ciclisti, carrozze con i cavalli, nei viali laterali persone che leggono o portano a passeggio i cani; incrociamo un ragazzo con in braccio un cagnolino coi calzini rossi, lo guardiamo, ci ricambia lo sguardo in malo modo e stringe a se il cane, ma vai che nessuno te lo tocca. Siamo stanchi, vorremmo riposare, torniamo all’albergo, ma la camera non è ancora pronta, Non abbiamo nessuna intenzione di vagare per New York, per cui restiamo nella hall a navigare su internet con i due computer a disposizione dei clienti e veniamo così a conoscenza della strage di Viareggio. Verso le due e mezza finalmente ci siamo, la stanza è pronta, camera duezerosei, primo piano. Una doccia e tutti a letto, Orietta dorme già. Ci alziamo verso le cinque, forse qualche minuto prima, è il momento di assaggiare la Grande Mela.
L’hotel è posizionato davvero bene in quanto siamo praticamente sulla Broadway, uno, due isolati al massimo: sono subito vetrine, ristoranti, teatri, tanti teatri e in fondo le luci di Times Square. Più camminiamo e più c’è gente, devi scansare le persone, arriviamo a Times Square ed il rumore delle voci e delle auto è fastidioso, eravamo abituati troppo bene, nei giorni precedenti il contatto con gli altri esseri umani era minimo e necessario, ora vorrei solo evitarlo. Facciamo un gran numero di fotografie, ma non vi trovo anima, c’è un ragazzo con un serpente che si fa pagare e mette il rettile intorno al collo del turista di turno, sul marciapiede più avanti c’è un gruppo di colore che suona una canzone dei Police, quando siamo nelle vicinanze dell’ Empire State Building c’è una grande scacchiera dove stanno giocando.
Decidiamo di andare in cima al grattacielo più famoso di New York: chi non ricorda King Kong? Bisogna salire con l’ascensore per avere l’accesso alle biglietterie, c’è fila, ma non ricordo una sola fila lenta in America, la gente è paziente, con il ticket di venti dollari arrivi all’ottantaseiesimo piano, con quindici dollari in più arrivi in cima, al centoduesimo piano, per noi è sufficiente la prima soluzione. Passiamo i controlli, c’è la coda per prendere l’ascensore, arrivi all’ottantesimo, solito negozio di souvenir, ennesima foto che lasceremo ai posteri e nuovo ascensore. Arriviamo a destinazione, usciamo all’esterno, ci sono tantissimi turisti, è dura raggiungere il parapetto, ma non impossibile.
Ai nostri piedi c’è Manhattan, più o meno siamo a trecentocinquanta metri da terra. E’ davvero eccitante questa sensazione di altezza: si vede la punta meridionale dell’isola, laggiù c’è la statua della Libertà e ancora più distante il ponte da Verrazano, dall’altro lato Central Park e quello dovrebbe essere Harlem. Davanti ai nostri occhi oltre all’Hudson ci sono il New Jersey e Staten Island, di qua Brooklyn ed il Queens, e tanti tanti grattacieli, quello è il Chrysler, è davvero bello, e c’è vento, faccio una foto a Orietta ed è tutta spettinata. Nell’aprile 2001, alla morte di Joey Ramone, cantante dei Ramones, il grattacielo venne illuminato con i colori della bandiera americana mentre nel settembre dello stesso anno, in seguito all’attentato alle Torri Gemelle, l’Empire è tornato ad essere la costruzione più alta di New York e la seconda degli Stati Uniti. Gira la testa, è New York.

Torrio Lento

Se proprio doveva essere, poteva essere solo a Torrio e in nessun altro luogo della valle, cinquecento metri appena dal confine con la Liguria, ma già Emilia. In tutto e per tutto.
Lo scorso sabato è stato il giorno di Torrio Lento, manifestazione, happening, non saprei come definirlo. Una 24 ore di musica, cibo e buon bere che si va ad aggiungere al lungo elenco di eventi della frazione di Ferriere: dopo la ciaspolata a marzo, il coro degli alpini di Bettola a giugno, il Mojito Party, il Cantatorrio, la festa al Monte ad agosto, ecco una nuova manifestazione e, mi auguro, appuntamento fisso del calendario torriese.
Non so da chi sia partita l’idea, forse dal presidente, forse da qualche ragazzo/a del consiglio del circolo del paese, ma si è rivelata un idea vincente anche se il maltempo previsto (e non manifestatosi) ci ha messo lo zampino in fatto di presenze.
Pubblicizzato sul solito social network, dove avevano dato la loro adesione oltre trecento persone creando qualche timore per possibili contrattempi, si offriva la possibilità di alloggiare dal Balin, l’ostello del paese o di campeggiare a due passi dall’evento anzi, dentro l’evento. Il luogo: il campo sportivo.
La giornata di sabato è stata un lungo susseguirsi di preparativi: la preparazione dei cibi, il montaggio dei gazebo, l’allestimento dei tavoli, del palco, la ricerca della griglia per cucinare le carni, l’acquisto delle ultime cibarie. Poi, finalmente, alle 18.30, tutto è cominciato. Un dj, un vecchio furgone Citroen adibito a birreria, un barman a preparare anzi a sfornare mojitos a volontà ed un ricco buffet con bocconcini e pasta fumante.
Dalle nove in poi un altro dj set con Zombierella, bassista della band russa Messer Chups e due band ad alternarsi sul palco tra spiedini, salamelle, panini, birra artigianale e vini, biologici e non.
Terminata la parte notturna, la domenica mattina la festa si è spostata sul sagrato della chiesa con l’aperitivo di saluto e altra musica e altra allegria e, forse, l’arrivederci al prossimo anno.

Fiori di stagione

Again and again and again

Finalmente estate. Il caldo è esploso improvviso, ma per fortuna il fine settimana è vicino e così la fuga nei monti della mia val d’Aveto. Scappo da Genova venerdì sera, un tranquillo viaggio dopo cena, senza fretta. Arrivo in paese verso le dieci, il tempo di scaricare i pochi bagagli e sono in piazza a fare due discorsi con un paio di amici, uniche presenze foreste in tutto il villaggio.
Il sonno della notte è una cosa meravigliosa: le finestre chiuse, il piumino leggero, il rumore dell’acqua della fontana ad accompagnare il mio riposo.
Il sabato mattina avrei appuntamento per cambiare le pastiglie dei freni, ma chi di dovere non c’è, è al rally, se n’era dimenticato e io giro da una settimana al limite. Mi alzo presto comunque, è una giornata fantastica, senza una nuvola, perfetta per un escursione e per fare le fotografie come piacciono a me. In effetti, pensandoci bene, dovrei imparare meglio le tecniche di fotoritocco per aggiungere qualche nuvoletta e guadagnare qualche mi piace in più sui social network.
Sono passate da poco le otto quando salgo in auto e parto. A Pievetta la visione dell’Aiona è un invito al quale faccio fatica a rinunciare, ma l’obiettivo di giornata è il Carevolo e non ho intenzione di cambiare idea.
Arrivo al passo del Crociglia e il termometro segna 17°, non molti rispetto ai 33° di ieri pomeriggio in riviera, ma qualcuno in più in confronto a quando ero salito nello scorso settembre.
Sul passo non c’è una sola auto, nessun rumore, un cielo sempre sgombro di nubi: la Ciapa Liscia è lì accanto, imponente e immobile, quasi ad invitarmi a prendere i suoi sentieri.
Imbocco il sentiero sparato come sempre, dopo cento metri ansimo, ma nella faggeta riesco a rompere il fiato e forse la gita non sarà tragica come quella alle cascate del Perino.
La temperatura è perfetta, il cielo è fantastico, ma l’occhio non va oltre al Brallo o all’Aserei, dopo è foschia e calura, altrettanto verso il mare, all’orizzonte una scura cappa di caldo, ma sarà felice chi è sceso o scenderà in spiaggia.
Una breve salita per  il solito saluto verso la statua dell’Angelo e mi incammino poi verso il Carevolo. Nella faggeta ai piedi del monte il terreno è accidentato come sempre, solchi di moto, di trattori, fango e mi ritrovo a saltellare da una pozza all’altra.
Fatta eccezione per il cinquettio insistente degli uccelli, non c’è un solo rumore, neppure il mio fiato, nulla. Solo silenzio, la luce del cielo, le ombre del bosco e fiori, di ogni colore, di ogni forma.
Procedo senza fretta, per immagazzinare dentro di me ogni particolare di una camminata che quasi conosco a memoria. I pensieri sono leggeri, lievi, voglio pensare solo cose belle. Un sorso d’acqua alla Fontana Benedetta e via, verso la salita finale.
Nell’ultimo tratto scatto le solite foto, mi piace confrontarle con quelle precedenti, faccio ancora uno sforzo e sono in cima, accanto alla croce.
Un paio di foto, un paio di autoscatti e arriva un altro escursionista. Saluti di rito, da dove vieni, io da li, io da Cattaragna, mi invita alla manifestazione podistica del 28 giugno, 4,6 14, 18 chilometri, potrebbe essere un idea, vedremo anzi vedrò. Fa piacere comunque che ci siano paesi e persone che organizzano eventi per mantenere viva la nostra valle.
Riparto che sono le undici passate, mi aspettano un aperitivo a Torrio e un lungo pomeriggio che si concluderà a Selva, a notte inoltrata.
Sul Carevolo tornerò ancora, again and again and again e lo racconterò ancora perché di cose belle ho sempre sete, perché ogni giorno, ogni viaggio è diverso e vale la pena di viverlo e raccontarlo.

Il doloroso vivere

Il doloroso vivere
è alzarmi al mattino
e vivere il giorno,
incrociare persone
che non voglio incrociare.
Il doloroso vivere
è una vita non mia,
giorni uguali e piatti,
notti desolate e buie.
Il doloroso vivere
è pensare a te,
lontana,
alla tua umana fragilità,
alla mia fragile umanità.
E’ perdere il tuo amore,
schiacciato dalle tue paure,
sommerso dalle tue rabbie,
affogato dalla mia inerzia.
Il doloroso vivere
sarà vivere con il tuo pensiero,
con i tuoi rumorosi silenzi,
con una nuova solitudine.

scritta a Genova il 5 Giugno 2013