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Girovagando nel comune di Cerignale

Sabato di fine aprile; la settimana lavorativa è stata decisamente veloce, due giorni e poi un lungo fine settimana di riposo.
Del mio bellissimo 25 aprile ho già raccontato, non racconterò del giorno successivo dedicato all’annuale gita in val Tidone con Barbara e Massimo per acquistare vino per l’inverno, ma racconterò del mio sabato particolare.
La mia idea iniziale è quella di fare un escursione sui miei monti, ma sono troppo indeciso così rinuncio e, visti i recenti aumenti, decido di sprecare un pò di gasolio in giro per la valle.
Il giorno di Pasqua ero stato a Cerignale con Giampiero, non c’era mai stato e soprattutto non aveva mai percorso la dura salita che da Ruffinati porta a Selva.
Bella gita con la bellissima scoperta della bottega del paese che vende prodotti della val Trebbia e della Val d’Aveto, un vero negozio a km 0, ma il tempo cosi cosi mi aveva impedito di effettuare fotografie decenti a parte un paio di scorci a Cerignale, così oggi decido di riprovarci.
Forse non sono neppure le due quando salgo in auto alla volta di Vicosoprano. Una breve sosta prima dei Gresuan per fare l’immancabile scatto, qualche scatto da Pescino verso Ascona e poi proseguo verso Orezzoli. La giornata è bella, ma caratterizzata dal vento e dalle nuvole, bianche, veloci. Mi fermo una prima volta in cima alla discesa che porta a Bussego per fotografare Castagnola, ma è coperta dalle ombre e quello che esce è cosi cosi, mi raggiunge anche un’auto, l’unica di tutto il giorno, tra andata e ritorno da Vicosoprano a Cariseto, ad eccezione di un paio di grosse moto da turismo. Da quel momento in poi è una lunga serie di soste a scattare, a Orezzoli, a Rovereto dove Cattaragna sembra così vicina da volerla toccare, a Selva evito di fare la solita foto alla chiesa diroccata di Santo Stefano, arrivo a Cariseto e dintorni dove mi scateno. Cariseto fu nel Medioevo sede di uno dei tanti marchesati della famiglia Malaspina, di cosa vivessero allora me lo chiedo spesso. Nel tratto di strada tra Cariseto e Cerignale mi fermo a fotografare la confluenza tra Aveto e Trebbia, suggestivo punto in cui un fiume abbraccia l’altro. A Cerignale la domenica eravamo stati in due bellissime piazze dove campeggiano due giganteschi manifesti dedicati alla democrazia e ai migranti, bellissimi esempi di democrazia a queste latitudini. Questa volta non torno nei luoghi dove sono stato con Giampiero, ma vado direttamente a fotografare la chiesa di san Lorenzo. Poi è ora di tornare a casa con un sacco di fotografie da scegliere, scartare o tenere.

Il vento dura tre giorni

Ho già parlato in passato del mio amico Maurizio Caldini, da quel di Cattaragna, scrittore, attore, che ho avuto il piacere di conoscere in occasione di una serata in cui proponeva una sua piece teatrale in quel di Curletti.
La scorsa estate ho avuto il piacere di rivederlo , sempre a Curletti, sempre in occasione di un suo spettacolo in cui narrava antiche filastrocche e fiabe che si ricollegavano alle tradizioni locali.
Terminato lo spettacolo siamo rimasti qualche minuto a parlare assieme a Pierluigi, anima e motore del circolo del piccolo paese avetano.
E’ stato in quell’occasione che ho comprato una copia del suo ultimo libro “Il vento dura tre giorni”, un bellissimo racconto ambientato a Cattaragna negli anni cinquanta.
La storia si sviluppa nei giorni della Quaresima e ha protagonista Nina, una ragazzina di dieci, dodici anni.
Il libro parla della quotidianità di questa bambina in un paese sui nostri monti, è Cattaragna, ma avrebbe potuto essere Ascona o qualsiasi altro villaggio della nostra valle, tanto le tradizioni, le abitudini sono simili, sola differenza il dialetto.
Parla delle mattinate a scuola, dei pomeriggi ai pascoli o nelle stalle, della vita dura e semplice sui nostri monti, delle persone e dell’importanza degli anziani, parla di un mondo umile, una vita fatta di sacrifici e di rari momenti di felicità.
Non racconterò la storia, toglierei il piacere della lettura a chi lo comprerà o a chi lo sta leggendo a puntate su Montagna Nostra dal 2014, ma posso solo fare i miei complimenti a Maurizio come scrittore, per la sua scrittura leggera e piacevole, lieve e delicata, per la sua capacità di catapultare il lettore in un mondo che non c’è più, là dove affondano le mie radici.

Ritorno ai Mulini di Ascona

E’ una calda domenica di marzo, finalmente è primavera, tra poco dovrò rientrare a Genova, ma l’ora, il tempo, il sole, la luce mi dicono che un peccato non approfittare della bella giornata e fare ancora due passi.
Non ho voglia di muovere l’auto e senza l’auto le possibilità di gite in un raggio ridotto si riducono parecchio.
Potrei andare a Torrio oppure lungo lo stradone o magari al prato del Casarin, ma alla fine decido di tornare ai mulini: l’ultima volta era stata nel 2014, in compagnia di Marco, quando andammo a togliere un albero che si era schiantato sul tetto dell’ultimo mulino ancora in piedi.
E’ passata da poco l’una e mezza quando imbocco il sentiero, sono in borghese, senza abiti tecnici, solo gli scarponi: fa caldo, caldissimo per essere il 24 marzo, infatti sono in camicia.
Quando passo a Campumà osservo la campagna a riposo: qualche contadino ha già mosso la terra per la prossima semina, molti prati sono curati, altri sommersi dalle erbe infestanti, dal viassà come si dice da questi parti.
Il sentiero corre in falsopiano per qualche centinaio di metri, supero le due panchine che Luciano e Silvio avevano costruito e sistemato lungo il percorso alla fine degli anni novanta, dopo la seconda panchina inizia la discesa che porta ai Mulini.
I segni dell’abbandono tutt’intorno sono evidenti, ma il sentiero è pulito, merito forse dei cacciatori, sicuramente degli animali selvatici che qui hanno il loro regno: nel bosco ci sono molte piante abbattute dagli eventi naturali, ma anche porzioni di piccoli prati pulite, battute dai cinghiali o dai caprioli.
Scendo con calma, intorno a me silenzio, nessun rumore, solo un capriolo che mi ha sentito o visto e abbaia sino a quando scompaio a distanza di sicurezza: la luce filtra tra i rami cosi come il calore del sole, in lontananza scorgo la diga dei Boschi ed il massiccio della Ciapa Liscia.
Arrivo velocemente al bivio che sulla destra porta ai Mulini mentre quello che scende a sinistra porta ai resti di quella che fu la centrale elettrica del paese e al guado sul torrente con il sentiero che proseguiva verso Boschi e Castagnola e oltre ancora.
Anche questo tratto di sentiero è pulito: supero il primo ruscello, in secca, poi il secondo, anche questo asciutto ed in un paio di minuti sono arrivato. Ad annunciarlo è il rumore del rio Remorano, forte, quasi assordante, potente nella sua corsa verso l’Aveto.
In breve arrivo ai resti del Mulino dei Frati, poco sotto c’è il Mulino di Sotto che poi è quello in  mezzo, ancora in piedi, più forte del tempo e delle intemperie: la cuspide del tetto è danneggiata dall’albero che in qualche modo avevamo tolto, la porta è semi abbattuta, ma la struttura è ancora in piedi, come un pugile alle corde che resiste ai colpi dell’avversario.
In un mondo più civile e più ricco, questa costruzione sarebbe già stata recuperata, ma ad Ascona, comune di Santo Stefano d’Aveto, quindici abitanti, un operazione del genere non ha e non avrebbe senso anche se sarebbe bello. Triste, ma giusto così.
Mi prendo il tempo di fare uno scatto anche al Mulino dei Ferrari, quello più a nord dei tre e mi avvio verso la strada del ritorno.
Prima di partire do un occhiata ai pantaloni e trovo tre piccole zecche, le tolgo e penso che sono solo l’antipasto della bella stagione ormai alle porte.
Mentre cammino verso casa, penso ai nostri vecchi quando percorrevano il sentiero sulla via del ritorno, magari sotto il peso della farina delle castagne o del grano appena macinato, penso al falegname che con il bello o il cattivo tempo partiva da casa per ridonare la corrente al paese, penso ai fedeli quando partivano dai paesi del piacentino per venire ad Ascona a venerare la Madonna dei Sette Dolori e come a loro finalmente mi appare Ascona nella sua semplice bellezza.

La tragedia della Boffalora

Era il 6 ottobre del 1956, esattamente sessant’anni fa, quando si consumò la più grande disgrazia che abbia mai colpito la val d’Aveto, la tragedia della Boffalora, un episodio di cronaca poco conosciuto o forse troppo presto dimenticato.
Non erano ancora le 5 del pomeriggio di quel triste giorno quando un camion partito la mattina da Ruffinati usciva di strada all’altezza del rio Boffalora, tra San Salvatore e Bobbio, e si inabissava nel Trebbia.
A bordo del camion, oltre all’autista ed al proprietario, vi erano un giovane militare in licenza e nel cassone diciassette lavoratori che si recavano nel vercellese per la campagna della raccolta del riso.
Nel drammatico incidente perirono, oltre alle tre persone presenti nella cabina del “642” rosso, ben nove dei mondini e mondine presenti sul camion: solo cinque passeggeri si salvarono mentre una sesta persona, una ragazza di sedici anni si salvò in quanto arrivò tardi all’appuntamento a Ruffinati.
Chi pagò il tributo più alto in termini di vittime fu Cattaragna con ben cinque morti mentre due furono le vittime provenienti da Marsaglia, due quelle da Sanguineto e una per ciascun paese erano originarie di Torrio, Costa di Curletti e Castelcanafurone.
Di quel triste episodio ne sono venuto a conoscenza pochi anni fa quando passando nei pressi di Bobbio, Massimo mi indicò la stele lungo il ciglio sulla strada e mi raccontò la drammatica storia: collegai finalmente al fatto la lapide commemorativa che avevo visto sulle pareti di una costruzione a Cattaragna.
Oggi a Ferriere è stato celebrato il doloroso anniversario, per non dimenticare, per ricordare i sacrifici dei nostri valligiani che partivano dai loro paesi e si recavano a centinaia di chilometri di distanza a svolgere lavori umili e faticosi in cambio di qualche soldo che gli garantisse migliori condizioni di vita.
E’ giusto ricordare il sacrificio di queste sfortunate persone, per non scordare le nostre origini, per rammentare quanto fosse dura sopravvivere tra le montagne dell’Appennino in quegli anni: basti pensare che le bare delle vittime di Cattaragna furono portate a spalla da Ruffinati al paese d’origine, quattrocentodieci metri di dislivello in salita, senza una strada che permettesse di tributare loro l’ultimo saluto in maniera adeguata.
Ricordo i racconti di Rita, di Carmela, di mia zia Ada e di altre persone di Ascona che mi narravano le loro esperienze nelle risaie della pianura, delle lunghe faticose giornate con i piedi immersi nell’acqua, delle serate in compagnia dei paesani a cantare le loro malinconiche canzoni, il tutto in cambio di un chilo di riso al giorno e qualche soldo.
Penso che il comune di Ferriere faccia bene a mantenere vivo il ricordo di quel drammatico giorno, che sia giusto non dimenticare quel 6 ottobre di tanti anni fa perchè in fondo quella tragedia non appartiene solo a Ferriere, ma anche ad Ascona e a tutti i paesi della valle, appartiene a tutte le terre povere e umili che hanno esportato braccia e aiutato a crescere e migliorare questo paese.

Mondine asconesi ai risi

Mondine asconesi ai risi

Metti una sera a Curletti

Lo scorso anno Armando mi chiese una copia del libro che avevo scritto su Ascona per regalarlo ad un conoscente che a sua volta aveva scritto un volume su Curletti, il paese di cui è originario e dove trascorre i suoi fine settimana e le sue estati.
Gli diedi il libro, molto volentieri e dopo qualche settimana Armando mi consegnò una copia del volume dedicato a Curletti che posai, purtroppo con la mia solita sufficienza, sul comodino.
Dopo qualche tempo, spinto dalla presenza e dalla curiosità, iniziai a leggerlo e mi accorsi che era un opera davvero interessante e profonda, un lavoro di ricerca sulle proprie origini davvero notevole.
Tra le altre cose Armando mi aveva consigliato di contattare l’autore in quanto aveva del materiale sulla storia di Ascona. Pensate che lo feci?
Intanto passano giorni, settimane, mesi, forse un anno, qualche tempo fa ricevo una mail da questa persona. Si presenta e mi manda dei documenti su Ascona risalenti al XVII secolo: definirli interessanti è dire poco.
Iniziamo così a scriverci, lui a mandarmi documenti, io a ringraziare, così un giorno di maggio decido di andare a fargli visita, sperando che sia presente.
Beh, Curletti non è proprio dietro l’angolo, bisogna scendere a fondovalle e anziché salire a Cattaragna, dove è ancora interrotta la strada dopo la drammatica alluvione di settembre, bisogna superare Salsominore e salire a Casale e poi a Brugneto e da qui prendere la strada che porta al piccolo paesino.
Una volta arrivato, scendo al circolo del paese, chiedo di Pierluigi, questo il suo nome, ed un signore si propone per andare a chiamarlo.
E’ lo zio, ha un ottantina d’anni, vive qui tutto l’anno, assieme ad altri undici temerari. Qualche minuto e lo incontriamo, di ritorno dai lavori di ripristino di un sentiero. Mi presento, due parole di circostanza e andiamo a bere al circolo.
Seduto al tavolo scopro una persona straordinaria, un vulcano di idee. Mi racconta delle sue ricerche, di come è nato il suo libro, dell’amore per il suo paese, per la sua terra.
L’incontro dura meno di un ora poi è il momento di salutare con la promessa di rincontrarci.
Continuiamo a scriverci e qualche settimana fa mi manda una mail dove mi invita ad una pizzata a Curletti con annesso spettacolo teatrale, la strada di Cattaragna è finalmente aperta ed il cammino per raggiungere il paese sarà più breve.
L’appuntamento è un sabato di metà luglio: gli amici di Torrio sono in vacanza, quelli di Amborzasco danno buca, ma andrò lo stesso, da solo, poi, inaspettatamente, si aggrega mia sorella.
Decidiamo di saltare la pizzata, ma non lo spettacolo che inizierà alle nove e mezza.
Partiamo poco dopo alle otto, viaggiamo tranquilli, ci fermiamo a dare un occhiata alla diga di Boschi dove sono cominciati i lavori mentre sulla Tre bis è un susseguirsi di piccoli cantieri. Arriviamo al bivio per Cattaragna, sulla ex statale c’è un semaforo, ma noi svoltiamo a destra, in salita, un cartello avverte che la strada è interrotta, ma è una dimenticanza o un dissuasore.
Percorrendo la stretta strada che sale, quello che fa più impressione sono i solchi lasciati dall’alluvione di quel tragico 13 settembre: tutti i canali sono diventati enormi, tutti, senza distinzione.
Arriviamo a Cattaragna, la vista è magnifica, niente da dire.
Proseguiamo: un cartello indica che è vietata la raccolta delle castagne nel bosco alle porte del paese, poi è asfalto, piccoli sterrati, canali larghi come torrenti e caprioli ai bordi delle strade.
Arriviamo a Curletti in quaranta minuti, pochissimo considerata l’andatura. Facciamo fatica a trovare parcheggio, questa sera c’è il pienone. Scendiamo verso il circolo e Paola vuole andare a vedere la piccola chiesa dedicata a Santa Giustina ed il suo minuscolo piazzale che si affaccia sulla valle.
Nel frattempo Pierluigi mi ha riconosciuto: andiamo a salutarlo e ci presenta Maurizio, l’attore, originario di Cattaragna, che reciterà tra poco.
Il salone interno ed il portico del circolo sono pieni, un sacco di persone che stanno cenando, entriamo al bar per un caffè e nella cucina, a vista, quattro volontari stanno spignattando, infornando, cuocendo. Cacchio che organizzazione invidiabile.
Con Pierluigi parliamo del più e del meno, ma soprattutto dei nostri paesi, di ricordi, di tradizioni, faccio conoscenza con un altro ragazzo di Cattaragna, poi è l’ora dello spettacolo.
Il microfono dapprima fa le bizze, poi due allegre vecchiette al momento di cominciare decidono che è il momento di salutare amici e parenti e danno via ad un simpatico siparietto.
Poi si comincia: Il cuore è un muscolo involontario. Tre atti, un ora in totale, serio, divertente, anche coinvolgente, dedicato alla parte più importante del nostro corpo. Bello e ben recitato, ho fatto davvero bene a venire sin qui.
Al termine dello spettacolo scambio qualche parola con Maurizio: mi parla dell’amore verso Cattaragna, di quello, diverso, ma altrettanto forte verso Curletti, mi racconta di quando sua madre partiva dal suo paese per venire alla festa di Ascona, a piedi. Che tempi e che gente e che festa doveva essere.
Poi, come sempre, è l’ora dei saluti e del ritorno, saluto e ringrazio Pierluigi e Maurizio, non lo prometto, ma vorrei tanto rivederli tra due settimane a Cattaragna, alla festa di Sant’Anna. Non ci sono mai stato ed è già una buona ragione per esserci.

Curletti (maggio 2016)

Curletti (maggio 2016)

Again and again and again

Finalmente estate. Il caldo è esploso improvviso, ma per fortuna il fine settimana è vicino e così la fuga nei monti della mia val d’Aveto. Scappo da Genova venerdì sera, un tranquillo viaggio dopo cena, senza fretta. Arrivo in paese verso le dieci, il tempo di scaricare i pochi bagagli e sono in piazza a fare due discorsi con un paio di amici, uniche presenze foreste in tutto il villaggio.
Il sonno della notte è una cosa meravigliosa: le finestre chiuse, il piumino leggero, il rumore dell’acqua della fontana ad accompagnare il mio riposo.
Il sabato mattina avrei appuntamento per cambiare le pastiglie dei freni, ma chi di dovere non c’è, è al rally, se n’era dimenticato e io giro da una settimana al limite. Mi alzo presto comunque, è una giornata fantastica, senza una nuvola, perfetta per un escursione e per fare le fotografie come piacciono a me. In effetti, pensandoci bene, dovrei imparare meglio le tecniche di fotoritocco per aggiungere qualche nuvoletta e guadagnare qualche mi piace in più sui social network.
Sono passate da poco le otto quando salgo in auto e parto. A Pievetta la visione dell’Aiona è un invito al quale faccio fatica a rinunciare, ma l’obiettivo di giornata è il Carevolo e non ho intenzione di cambiare idea.
Arrivo al passo del Crociglia e il termometro segna 17°, non molti rispetto ai 33° di ieri pomeriggio in riviera, ma qualcuno in più in confronto a quando ero salito nello scorso settembre.
Sul passo non c’è una sola auto, nessun rumore, un cielo sempre sgombro di nubi: la Ciapa Liscia è lì accanto, imponente e immobile, quasi ad invitarmi a prendere i suoi sentieri.
Imbocco il sentiero sparato come sempre, dopo cento metri ansimo, ma nella faggeta riesco a rompere il fiato e forse la gita non sarà tragica come quella alle cascate del Perino.
La temperatura è perfetta, il cielo è fantastico, ma l’occhio non va oltre al Brallo o all’Aserei, dopo è foschia e calura, altrettanto verso il mare, all’orizzonte una scura cappa di caldo, ma sarà felice chi è sceso o scenderà in spiaggia.
Una breve salita per  il solito saluto verso la statua dell’Angelo e mi incammino poi verso il Carevolo. Nella faggeta ai piedi del monte il terreno è accidentato come sempre, solchi di moto, di trattori, fango e mi ritrovo a saltellare da una pozza all’altra.
Fatta eccezione per il cinquettio insistente degli uccelli, non c’è un solo rumore, neppure il mio fiato, nulla. Solo silenzio, la luce del cielo, le ombre del bosco e fiori, di ogni colore, di ogni forma.
Procedo senza fretta, per immagazzinare dentro di me ogni particolare di una camminata che quasi conosco a memoria. I pensieri sono leggeri, lievi, voglio pensare solo cose belle. Un sorso d’acqua alla Fontana Benedetta e via, verso la salita finale.
Nell’ultimo tratto scatto le solite foto, mi piace confrontarle con quelle precedenti, faccio ancora uno sforzo e sono in cima, accanto alla croce.
Un paio di foto, un paio di autoscatti e arriva un altro escursionista. Saluti di rito, da dove vieni, io da li, io da Cattaragna, mi invita alla manifestazione podistica del 28 giugno, 4,6 14, 18 chilometri, potrebbe essere un idea, vedremo anzi vedrò. Fa piacere comunque che ci siano paesi e persone che organizzano eventi per mantenere viva la nostra valle.
Riparto che sono le undici passate, mi aspettano un aperitivo a Torrio e un lungo pomeriggio che si concluderà a Selva, a notte inoltrata.
Sul Carevolo tornerò ancora, again and again and again e lo racconterò ancora perché di cose belle ho sempre sete, perché ogni giorno, ogni viaggio è diverso e vale la pena di viverlo e raccontarlo.