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Ritorno al Piano della Cavalla

Sabato di fine maggio, nel parco dell’Antola è tempo di fioritura dei narcisi e per il terzo anno consecutivo decido di andare a vederla.
A dirla tutta dovevo andarci con un amica, ma all’ultimo mi da buca, pazienza, la strada la conosco alla perfezione e tutto sommato preferisco andarci da solo.
Sono arrivato in paese ieri sera, solita storia, un paio di auto alla fontana, quasi tutte le finestre chiuse, c’era qualcuno la scorsa settimana per dei lavori al campetto di calcio, adesso per rivedere qualcuno bisognerà aspettare.
Alle otto meno qualche minuto del sabato mattina lascio Ascona in direzione Rezzoaglio, cappuccio e brioche, provviste per la gita poi via, direzione val Trebbia.
Finalmente è una bella giornata di sole, le previsioni dicono che peggiorerà nel pomeriggio e così sarà, ma questa mattina no, il tempo è buono ed è l’ideale per fare questa gita.
Raggiunta Cabanne svolto in direzione Fontanigorda, sul lungo rettilineo di Mileto evito di schiacciare il piede come lo scorso anno, salgo tranquillo, sono in perfetto orario e non mi corre dietro nessuno.
Lungo la strada del Fregarolo non incontro un auto, zero, solo due boscaioli che stanno caricando un camion poco prima del passo poi non incrocio nessuno praticamente fino a Loco.
Una volta lasciata la SS 45 e imboccata la strada che porta alla mia meta mi attraversa la strada un capriolo poi più nulla, solo un auto guidata da un anziano che procede in senso contrario.
A Fontanarossa trovo posteggio in piazza, ci sono già diverse auto, il tempo di calzare gli scarponi e sono pronto, inizio la salita mentre il campanile del paese batte le nove.
Salgo con calma, è la prima escursione dopo le ciaspolate invernali, la forma è pessima, fatico quasi a respirare e sudo, cribbio come sudo.
Il sentiero è umido dalle piogge dei giorni precedenti, scivoloso, fastidioso. Arrivato alla fontana situata a metà percorso incontro una coppia intenta a fare legna, per qualche attimo sono indeciso se tagliare per la strada che ho percorso sulla via del ritorno le precedenti escursioni  o per il sentiero principale, infine opto per quest’ultimo.
Sono le nove e quarantacinque quando metto piede sul prato del Piano della Cavalla, davanti a me un gruppetto di quattro persone, poco lontano un fotografo intento a scattare e nessun altro.
Faccio i primi scatti, salgo sulla collinetta da cui si gode una vista totale del pianoro e arrivano le prime avvisaglie di gitanti, una coppia, un altra coppia, altri alla spicciolata.
Una coppia con un forte accento lombardo mi chiede se è questo il prato dei narcisi, mi verrebbe voglia di risponder fate voi, è tutto bianco, poi mi limito a un certo lo è, è la terza volta che vengono, le altre due hanno sempre trovato cattivo tempo.
Il resto dell’escursione è facilmente riassumibile, scatti, scatti, scatti, la ricerca del fiore ideale, della luce, dell’inquadratura, l’attenzione di non incrociare i tanti gitanti che stanno arrivando.
Salgo sulla cima del monte della Cavalla, la salita più semplice di tutte, mi offre una vista sull’Antola, su Casa del Romano, sui paesi della valle, quelli che vedo dovrebbero essere Carpeneto, Rondanina e Fascia.
Quando sono le undici decido che è il momento di tornare, quello che volevo fare l’ho fatto e posso scendere verso Fontanarossa. Sul sentiero del ritorno, incrocio si e no cinque sei persone, meno dello scorso anno, ma quelle sul Piano erano veramente tante.
Una volta arrivato in paese il parcheggio è pieno a tappo e trovo numerose auto posteggiate ai lati della strada, il tempo di scendere a vedere la chiesa di Santo Stefano e cambiarmi e posso riprendere la via di casa, poi, se tornerò il prossimo anno è tutta da vedere, in fondo visto un narciso visti tutti.

Villaggi abbandonati, pt 2

La sosta dura parecchio, poi finalmente ripartiamo, un altro tratto di cammino nel bosco (ma è tutto bosco!) e siamo a Ferrazza.
Da lontano appaiono quattro case ed un tavolo imbandito con alcune persone intorno. Mi spiegano che sono due famiglie che hanno recuperato una di queste abitazioni abbandonate e ci vengono d’estate e nei fine settimana.
Appena arriviamo alcuni del gruppo salutano i proprietari, si conoscono, in fondo Genova è piccola, è solo un grande paese.
Qui la sosta è più veloce e, una volta ripreso il cammino, dopo circa venti minuti arriviamo finalmente a Reneuzzi.
La prima costruzione che troviamo è il cimitero, sulla sinistra e poco dopo, sulla destra, la chiesa del borgo dedicata a San Bernardo Abate. Tra le costruzioni che vedrò è tra quelle messe meglio.
Poi rovine, rovine e rovine. Arriviamo in uno spiazzo attrezzato con due tavoli e cinque panche dove consumiamo il nostro pranzo. Debora ne approfitta per raccontarci ancora qualcosa. Ci parla dell’omicidio che ebbe luogo tra queste vie nel lontano 1961 quando un trentunenne uccise la cugina, ventenne, con la quale aveva una relazione. La uccise nel giorno in cui lei e la sua famiglia stavano abbandonando il paese. Dopo il fatto lui si diede alla macchia e si suicidò.
Molto probabilmente, oggi lo chiameremmo femminicidio ed il colpevole sarebbe condannato ad una pena esemplare, allora lo avrebbero archiviato come delitto passionale e forse l’omicida se la sarebbe cavata con poco. Sicuramente, accadesse oggi, ci sarebbe la fila di curiosi lungo il sentiero e tutti a commentare e a predicare sui social.
Dopo il pranzo al sacco, si va insieme alla chiesa ed al cimitero, poche tombe, l’impressione generale è che quella dell’omicida abbia un aspetto troppo curato. Poi c’è il liberi tutti.
Tra le rovine faccio le mie riflessioni. Penso ai luoghi che amo, a quale sarà il futuro di quei paesi, a quelli già oggi disabitati, a quelli con pochi abitanti. Cammino tra le vie di Reneuzzi, tra pietre e travi abbattute, penso alla vita grama che facevano gli abitanti di questo luogo, lungo una montagna impervia, penso ai pochi campi, oggi avvolti dalla vegetazione, guardo le stalle vuote, alle abitazioni al piano superiore, guardo quelle travi scure, annerite dal fumo delle stufe, dal caldo delle polente. Penso che se la rovina di molti paesi sono state le strade che hanno permesso alla gente di scappare in città, qui non ce n’è stato bisogno tali dovevano essere le condizioni, sono scappati prima e non c’è stato bisogno di costruire strade. Ma quello che mi colpisce è che qui non è tornato nessuno. Nessuno.
Poi cammino, tra finestre che guardano il nulla, tra pareti precarie e mi godo il tepore del sole.
Mi fermo accanto ad una abitazione, vorrei fare una foto, metto una mano su di una trave appoggiata ad una parete e mi torna in mente un frammento di Salvate il soldato Ryan, tolgo la mano, non voglio finire sotto ad un muro.
Faccio ancora qualche foto e alla fine del giorno saranno oltre duecento, ma sono stufo. In fondo a me piace camminare e fotografare e così è stato.
Mi rendo conto che sono tutti più bravi di me o forse sono io che mi accontento o gli altri hanno una passione maggiore. Incrocio un altro partecipante che come me ne ha a sufficienza e decidiamo di raggiungere la scrittrice che è andata a Ferrazza.
Lungo il sentiero parliamo del più e del meno, a Ferrazza la nostra sosta poco più di mezzora, poi ci raggiungono gli altri e ripartiamo.
Per il ritorno, fortunatamente, cambiamo percorso, non si passa più ai Casoni, ma saliamo direttamente in cresta o quasi, qui il sentiero è largo, su un tappeto di foglie e con un regalo speciale per la nostra escursione, la vista del Monviso al tramonto.
Poi è tardi, è buio, sono le cinque passate, io ho un appuntamento con i miei amici alle sette e mezzo in quel di Amborzasco, quasi settanta chilometri e due ore di viaggio. L’andatura è lenta, nessuna ha fretta, tutti parlano, si conoscono, io sono un solitario, ho fretta e cammino dieci metri più avanti.
Quando arriviamo alla sella decido che è il momento di salutare la compagnia, sono le cinque e trentacinque, per essere puntuale dovrò fare i miracoli, ringrazio Donato ed il capo gruppo e fuggo.
In pochi minuti arrivo a Vegni, un cane mi salta addosso, poi un altro ed un’altro ancora, ma non mi mordono, accendo l’auto e parto, via, verso la mia valle, verso la mia gente, in bocca il sapore amaro dell’abbandono.