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Anello dell’Aiona, pt 1

In un anno dove sono già salito su due monti che mancavano al mio curriculum, questa era una delle escursioni che mi mancavano, non che non ci fossi mai salito sull’Aiona, ma sempre dalla stessa via, era l’ora di cambiare.
Lo scorso anno dovevo salirci assieme agli amici di Torrio partendo dal lago delle Lame, ma la morte improvvisa della batteria della mia auto aveva fatto si che mi perdessi il giro.
Quest’anno, in occasione del 25 aprile, in compagnia di Gianluca e Mattia abbiamo organizzato un barbecue a Moggia Negretta e con l’occasione siamo arrivati sino al passo del Cereghetto e da li alle Baracche, appena sopra alla riserva delle Agoraie: un mondo nuovo, da esplorare.
Da quel giorno ho iniziato a studiare il percorso, da solo non è cosi semplice, ci sono un sacco di variabili, tipo una storta, un malore, un temporale improvviso e non ultimo, trovare il giorno giusto.
E’ un sabato di inizio giugno quando decido di fare il lungo anello che dalla segheria del Monte Penna mi porterà sulla cima dell’Aiona transitando per il passo di Pre de Lame e tornare poi sul sentiero utilizzato tante volte che porta al passo dell’Incisa e da li poi alla mia auto. Ho una vaga idea della distanza da percorrere e del tempo, ma sarà tutta da vedere.
Dopo una veloce colazione, parto. E’ un fresco mattino di primavera, il paese deserto, ma questa non è una novità, la novità è quella del prete che ha abbandonato la processione in un paese vicino, è finito sui giornali, tutti ne parlano, ma guai a scriverne, vergogna, è vietato.
Riempio la borraccia alla Fontana Vecchia e mi dirigo verso Santo Stefano dove faccio un grosso errore: quello di non fermarmi a fare provvista di qualcosa, un pezzo di focaccia, un frutto, una tavoletta di cioccolata.
Viaggio lentamente su una strada percorsa tante volte, quella del Tomarlo, una foto all’Aiona da lontano, lungo la provinciale del Penna non incrocio nessuno, solo cataste immobili di legna, montagne, montagne di legna, ovunque.
Arrivo alla segheria, mi cambio, per intenderci resto in mutande in mezzo alla strada, ma tanto non c’è nessuno, il tempo di pensarlo e arriva una macchina. Per fortuna mi sono già rivestito.
Sono le otto e trentacinque, saluto il signore appena arrivato con cane e bici al seguito e parto.
L’inizio dell’anello dell’Aiona si sviluppa inizialmente attraverso il lungo stradone che porta verso il passo del Cereghetto, alberi a destra, alberi a sinistra, vista praticamente nulla, solo il canto degli uccelli ed il rumore dei ruscelli. Cosa desiderare di più? Un idea l’avrei, ma non è il caso di scriverla.
All’inizio dell’escursione ho avviato l’applicazione sullo smartphone: dopo un chilometro mi ricorda quanto ho percorso, il tempo impiegato, l’altezza e così sarà ogni mille metri.
Dopo tre chilometri arrivo al ponte di Redecoppe, meno di trenta minuti, ottimo, è il primo punto in cui si può godere della vista sulla valle, un centinaio di metri e sono a Moggia Negretta, un piccolo rifugio, un barbecue, ma anche il quadrivio del Rio Dragonale: qui arrivano o partono i sentieri per la Spingarda, Amborzasco, Incisa e Cereghetto. Nessuna sosta, due scatti veloci e continuo. Dopo un piccolo tratto in piano, la strada inizia a salire, lentamente, nulla di particolare, prima nell’ombra del bosco e poi allo scoperto, è la parete nord che si vede salendo dal Tomarlo.
Il 25 aprile con Gianluca e Mattia ci eravamo fermati ad ammirare un aquila che volteggiava sopra di noi, ricordo ancora gli alberi spogli, qualcuno con le gemme, ora è un esplosione della natura, un tuffo nel verde. In breve sono al passo del Cereghetto, quattro chilometri e ottocento metri di percorso, qui finisce lo stradone, imbocco il sentiero, un paio di brande arrugginite dimenticate nel bosco ed una miriade di moscerini che mi picchiano in faccia, per due o trecento di metri (segue)

Salita al monte Caucaso, pt 1

Sabato mattina di fine maggio, il campanile batte le ore, cinque, sei, sette, otto, cazzo, sono già le otto: che faccio?
A questo punto il rischio è continuare l’articolo come gli ultimi pubblicati: vado, non vado, i soliti dubbi insomma: nel dubbio, appunto, mi preparo, impugno zaino e reflex e scendo a bagnare l’orto. La giornata è fantastica, neppure una nuvola e l’operazione per quanto rilassante non mi aiuta a sciogliere il mio dubbio.
Salgo in auto, quando arrivo a Pozzo fanno la loro apparizione Aiona e Penna, uhm, un tour sull’Aiona non sarebbe male, lo scorso anno ho saltato il giro, arrivo a Pievetta e svolto verso il fondovalle, niente Aiona, la mia meta sarà il Caucaso, là dove nasce l’Aveto.
Mi fermo a Rezzoaglio per comprare qualcosa da mettere sotto i denti e questa volta sono fortunato, nessuna coda nella bottega.
Arrivo al passo della Scoglina poco prima delle nove e mezza, cazzo, è tardissimo, danno un tempo di percorrenza superiore alle tre ore, mi saltano tutti i programmi, vabbè, ormai sono qui, si parte.
Il sentiero ha inizio a lato della strada che scende da Barbagelata, un primo strappo per salire sul crinale che divide questo lembo di valle dell’Aveto alla valle di Malvaro, brevi saliscendi nella faggeta con bellissimi scorci sulla valle di Favale sino ad arrivare ad un taglio di alberi dove si scende verso un piccolo rivo, l’Aveto.
Il sentiero, segnato da tre pallini rossi disposti a triangolo, mi obbliga ad attraversare il corso d’acqua ed inoltrarmi verso monte guadando almeno altre cinque volte il torrente.
Questo forse è il tratto più bello della gita anche se dopo non mancheranno panorami fantastici, ma il silenzio che mi circonda, lo scorrere placido dell’Aveto, i colori del bosco sono difficili da descrivere. Fa caldo anche qui e forse per questa ragione non vedo l’ombra di un animale, molte impronte, ma non è la stessa cosa.
Dopo avere attraversato una radura di felci, una breve salita mi porta ad un passo che mi regala un fantastico panorama sulla valle sottostante e sui pendii del Caucaso. Bellissimo.
In questo tratto di gita sono allo scoperto, si, fa caldo, affronto la salita sul sentiero che corre quasi in trincea, poche decine di metri ed arrivo ad un bivio, a destra un paletto indica il passo del Gabba mentre a sinistra prosegue il mio sentiero, quello dei tre pallini rossi, la vista è ancora più bella, ma non è ancora finita.
Qualche decina di metri in piano, poi il percorso svolta in discesa, un tornante a sinistra ed il sentiero ritorna nella faggeta, il fondo non è dei migliori, ma ho visto di peggio, pochi minuti e arrivo a guadare un piccolo corso d’acqua e incontro il sentiero proveniente da Cicagna.
Sono all’Acquapendente, qui ha fine il segnavia contrassegnato dai tre pallini rossi e da qui in poi dovrò seguire il triangolo rosso pieno. Facile.
Per inciso svolto a destra, un breve tratto in piano e ha inizio la salita che mi porterà sulla cima del Caucaso.
Mentre ho cominciato l’irta finale sento delle voci, guardo innanzi a me e vedo due figure, in pochi minuti le raggiungo, ma decido di non superarle, ho il fiatone, la loro presenza mi permetterà perlomeno di rallentare e non morire di crepacuore, inizialmente le scambio per una coppia uomo donna, più avanti scoprirò trattarsi di due donne, sulla sessantina, forse più (continua)

Saluto al dio Pen

Domenica mattina, ore sette e trenta, mi giro, mi rigiro nel letto e penso: vado, non vado, vado, non vado? Sono i giorni della fioritura dei narcisi in val Trebbia, ma mi sa che non vado.
Apro le persiane verso la valle: sopra Ascona un sole fantastico, sui monti oltre Vicosoprano nuvole minacciose pronte a rovinare la giornata.
Che fare? Intanto faccio colazione poi carico in auto lo zaino e vado, non dove vorrei, ma nel dubbio vado.
Una volta sopra Pareto mi appaiono l’Aiona ed il Penna, qualche nuvoletta attorno. Rischio? Rischio.
A Santo tutto tace, poche persone in giro, non ci sono ancora i trialisti che partecipano alla Mulatrial.
Guido lentamente lungo la statale che porta al Tomarlo, penso, penso, a cosa dovrei pensare? No, non penso, mi godo il panorama, i colori della valle, mi fermo a scattare un paio di foto in prossimita di Gavadi, imbocco la strada per il Penna e un capriolo mi attraversa lentamente la strada: si, ė una bella giornata, in valle, nei luoghi che amo.
Ad un tratto alle mie spalle arriva un auto, l’autista ha fretta, mi lascio superare, qualche centinaia di metri e lo vedo fare manovra per posteggiare al passo del Chiodo: quanto tempo puoi avere guadagnato? Niente.
In pochi minuti sono sullo sterrato che porta al passo dell’Incisa, un po di slalom tra le buche eredità dell’inverno e sono arrivato.
Calzo gli scarponi, nuovi di pacca, quelli acquistati lo scorso anno e usati tre volte tre vanno mestamente in pensione, e sono pronto, la prima salita dell’anno sull’amato Penna, dovevano essere narcisi, ma pazienza.
Come d”abitudine imbocco la salita a cento all’ora ed ė subito fiatone, uff, uff.
Dopo il primo strappo provo a regolare il respiro, mi fermo solo un attimo a fare un paio di foto e poi via, verso la vetta.
Il sole nel frattempo ė sparito e nel bosco fanno la loro apparizione le nuvole, fitte, sempre piu fitte nel fitto del bosco: controllo che ci siano segnavia a sufficienza per il ritorno, non vorrei mai fare la figura del pirla che si perde, quella no.
Finalmente il bosco finisce ed esco allo scoperto, in due tre minuti sarò alla cappelletta; mi fermo solo ora a rifiatare, pensavo peggio, il mio obbiettivo ė quello di rifare la ripida salita che porta al monte Nero senza soste, come lo scorso anno.
Sulla cima non si vede nulla, le nuvole sono talmente veloci e fitte che fatico a vedere la cappelletta da lontano.
Vorrei fare qualche foto, ma a cosa? Non si vede la Nave, non si vede il Trevine, non si vede la casermetta, no, non ė il caso, ci sono dei fiori, quelli si, belli, bellissimi, interessanti, ma per il resto non si vede nulla, per fortuna non fa freddo e come tutte le volte ė un piacere essere su questa cima.
Non ho idea di quanto tempo mi fermo, sicuramente il tempo necessario per rifiatare, mettere ordine ai miei pensieri, godere di questi momenti, poi inizio la discesa.
Prima di rientrare nel fitto del bosco osservo i faggi piu vicini alla vetta, hanno le gemme appena abbozzate, nessuna foglia, si, anche qui la primavera tarda ad arrivare.
Le nuvole rimangono fitte, nel bosco ci saranno una cinquantina di metri di visibilita, quando meno me lo aspetto incontro due escursionisti che stanno salendo, marito e moglie di Santo, mi consolo a non essere stato l’unico a scegliere delle condizioni cosi: un saluto, due parole di circostanza e via, verso l’auto.
Si, sono felice, ho dato il primo saluto alla vetta del dio Pen, ora mi aspetta l’aperitivo da Mario ed un pomeriggio di riposo, la visita ai narcisi può aspettare.

Monte Oramara

Inizialmente l’idea era quella di partire da Vicosoprano, val d’Aveto e arrivare a piedi sino a Pietranera, val Trebbia, sedersi ai tavoli della trattoria Begnama e poi quel che doveva essere sarebbe stato: una traversata di almeno tre ore tra le due valli con finale culinario, si, l’idea era interessante.
Per ragioni che non sto a spiegare l’idea non si concretizza, Ricky però mi da l’alternativa: invece di Pietranera mi propone la cima dell’Oramara, il monte che domina Vicosoprano. Non ci sono mai stato, perchè no?
L’appuntamento è a Vico alle dieci del mattino. Posteggio, mi preparo e mi ritrovo a salutare un sacco di persone, alcuni lo conosco, altri no. Non pensavo di essere cosi popolare.
Raggiungo Ricky a casa sua. Il tempo di un caffè e sono pronti, lui, la Stefi, Silvia e Gabri.
Imbocchiamo la via che porta alle ultime case del paese e da qui una strada abbastanza ampia che costeggia il paese dall’alto. Al termine di questa troviamo una sbarra e una interpoderale sterrata. In pochi minuti arriviamo a quelli che un tempo erano i campi coltivati di Vico, oggi  sono piccoli orti principalmente di patate, protetti dai cinghiali al pari di Fort Knox, ma i prati sono puliti grazie a dei ragazzi di un altro paese che si occupano di tagliarne il fieno. Siamo a Pian Seiun, ne ho sempre sentito parlare, oggi lo vedo e l’attraverso. Provo ad immaginare i ricordi d’infanzia, di gioventù di Ricky, di Lele, di Mauro, di tanti amici.
Adesso la strada comincia a salire lentamente, sotto al sole. Il passo è tranquillo, non ci corre dietro nessuno. Arriviamo alla Bocca della Selva, mt 1299, una sorta di passo dove la strada raggiunge la massima altezza. Amici di Ricky ci hanno indicato un sentiero che parte una decina di metri dopo e sale appena sottocosta: non c’è, non lo troviamo, ma saliamo comunque.
Ci manteniamo un tre quattro metri sotto al crinale, l’improvvisato sentiero passa appena sopra a dei rivi in secca. Sbuchiamo sul crinale una prima volta e facciamo in tempo a vedere un capriolo che alla nostra vista si da alla fuga.
Fa caldo, ma il panorama che abbiamo davanti è fantastico per quanto disturbato dall’afa di agosto, abbiamo tutta la valle davanti o quasi, ma il meglio deve ancora venire.
Torniamo nel bosco, troviamo un passaggio nello scoperto abbastanza sporco, ma non perdiamo il nostro sentiero: saliamo lentamente, senza affanno.
Per poche decine di metri il sentiero corre in piano per arrivare ad un punto in cui riesce allo scoperto e troviamo il segnavia biancorosso che ci porterà in vetta.
Lo seguiamo per un tratto per poi perderlo, andiamo per un centinaio di metri a lume di naso e lo ritroviamo, pochi metri e siamo in cima.
Ci accoglie una croce in legno posta sulla vetta dieci anni fa dagli abitanti di Vico, meriterebbe una celebrazione o magari l’hanno fatta ed io non lo so.
La vista è fantastica: alle nostre spalle c’è la val Trebbia, riconosco Fontanarossa, il piano della Cavalla, il monte Alfeo sino ad arrivare al Brallo. Davanti c’è la val d’Aveto in tutta la sua bellezza: il Crociglia, Torrio, Ascona, il gruppo del Maggiorasca e quello del Penna, ma quello che più mi impressiona, che mi affascina è il Ragola che emerge in tutta la sua potenza.
Con Ricky proseguiamo sul sentiero. E’ stretto e si affaccia ripido su Alpepiana, alle nostre spalle un bosco di faggi che stanno tagliando.
Poi finalmente mangiamo, la salita ha messo appetito e sete. Mangiamo intorno alla croce e mi riempio gli occhi della vista di Ascona, di Torrio, della Ciapa Liscia, dei monti e della valle che amo.
La sosta dura un paio d’ore abbondanti poi è l’ora del ritorno. Riprendiamo il sentiero dell’andata, sino a quando è possibile seguiamo i segnavia poi si ritorna sui passi dell’andata. Scendendo seguiamo il letto del rivo e alla fine troviamo la specie di sentiero che ci avevano segnalato all’andata. Meglio tardi che mai.
Siamo alla Bocca della Selva, adesso arrivare a Vico è questione di poco, la gita è finita, rimarrà il ricordo di una bella giornata e di una vista unica, con i miei luoghi del cuore.

Salita al Trevine

Sono le quattro di domenica pomeriggio. La messa è terminata da poco, alcune persone sono entrate nel circolo, altri, come me, sono in piazza a fare due discorsi, sui caprioli, sui cinghiali, sui lupi, sugli argomenti di attualità del paese.
Il cielo adesso è azzurro, senza una sola nuvola, stamane era decisamente più brutto e non invitava a fare granchè, ma ora si.
Mi aspettano gli ultimi giorni di soggiorno in città ed un giro, a piedi, da qualche parte, non ci starebbe male per superare quest’ultimo ostacolo: penso di andare sino a Torrio, ma poi mi ritorna in mente il Trevine, ho una sorta di conto aperto da regolare e, vista l’ora, decido sia il momento di chiudere i conti.
In breve raggiungo Santo Stefano, prendo la strada per il Tomarlo e da qui la deviazione per il Penna. Una volta arrivato al passo del Chiodo posteggio e via, di corsa, no, proprio di corsa no, ma di passo lesto si.
Fa caldo, non caldissimo, nel bosco la temperatura è perfetta, il sentiero di fatto è uno stradone sterrato protetto all’ingresso da una sbarra: lungo il percorso incontro tre persone ed un cane, pochi davvero rispetto a quindici giorni fa.
Una volta giunto a La Nave il sentiero si fa più stretto e svolta sulla destra, non c’è alcuna indicazione, ne per il Penna ne per il Trevine, ma è impossibile perdersi, è l’unica via.
Percorro qualche centinaio di metri in piano, poi inizia la salita, breve, ma ripida, un primo strappo, un pianetto dove ci sono indicazioni per diverse destinazioni ed un ulteriore strappo.
Prima di arrivare al passaggio tra le rocce dove è posto il bivio tra il sentiero che porta al Penna e quello che devo percorrere io, supero un escursionista intento a riprendere il fiato, io invece ansimo, ma non mi fermo.
Una volta giunto al varco tra le due rocce do un occhiata alle indicazioni per il Penna: 30 minuti compresa la ferratina che porta alla vetta, sono tentato a virare a destra in quando non ho mai fatto questa salita, si, sono tentato, ma oggi non si fa.
Svolto quindi a sinistra, c’è ombra, fresco e piano piano recupero il fiato. Incontro tre escursionisti poi più nulla, in meno di dieci minuti esco dal bosco, davanti a me il pendio erboso che conduce alla sommità del monte Trevine.
C’è sole, vento, l’erba è mossa dalle folate che giungono continue, la vista è ottima anche se c’è comunque un poco di foschia.
Una volta in cima mi affaccio per fotografare un ponticello sospeso sullo strapiombo che avevo visto la volta precedente, ma, sorpresa, il ponticello non c’è più, restano solo dei gradini in ferro su una delle due pareti.
In breve salgo sulla cima del monte, il Penna incombe poco lontano, scatto, scatto e controllo, scatto le fotografie fatte due settimane fa che, per colpa mia, ho completamente bruciato e non starò a spiegare come, ma oggi non è la stessa luce, le stesse nubi, come sempre sono altri momenti.
Resto qualche minuto in cima a questo monte, vorrei scrivere figlio di un dio minore, ma forse è giusto scrivere figlio minore di un grande dio, vittima in qualche modo della presenza del vicino Penna: il Trevine è meno conosciuto, meno battuto, volendo anche meno alto, ma altrettanto affascinante.
Prima di avviarmi sulla via del ritorno controllo un ultima volta gli scatti, ci sono tutti: adesso posso riprendere via verso casa.
Una volta arrivato al passo del Chiodo controllo i dati dell’applicazione: a parte la sosta, l’escursione è poco più lunga di cinque chilometri tra andata e ritorno percorsi a passo spedito in circa un ora. Beh, la gamba non sarà la stessa di due settimane fa, ma mi sono difeso bene.

Dodici mesi, dodici foto

Perso

Mi perdo in questo bosco,
nei suoi rumori,
nei suoi suoni,
nelle sue luci.
Mi perdo in queste ombre,
nelle mie ombre,
nei miei ricordi,
nei miei dolori.
Mi perdo al tuo pensiero,
in te mi sono perso,
nelle pieghe del tuo corpo,
nei meandri della tua mente.
Mi perdo nell’immenso di questa cima
come mi sono perso in te
e in te mi perderei ancora,
ma in questo spazio infinito
non c’è spazio per i rimpianti,
c’è la gioia del momento.

scritta sul Monte Penna nel giugno 2012

Scorci dal monte Penna

Scorci dal monte Penna

Nelle terre del dio Pen

Pensieri dal Penna

Certe magie, certi momenti non tornano, il primo incontro, il primo bacio, una serata in compagnia di amici, nell’amore come nella vita, anche nel lavoro perché no, ė un attimo veloce che non tornerà.
E’ un mercoledì di inizio agosto, mi sveglio presto, le prime voci in strada, i primi rumori, addosso ho un misto di sensazioni: tristezza, delusione, tradimento. Non credo nei segni zodiacali, ma in questo sono uno scorpione, ho sempre molte aspettative dalle persone, senza pensare che siamo esseri umani, fragili, indifesi, umani appunto, io per primo.
Ho voglia di camminare, di sfogare la mia frustrazione e tra le decine di mete possibili scelgo quella che amo maggiormente, il monte Penna.
Arrivo sul passo dell’Incisa che sono passate da poco le otto e mezza e subito vivo il peggior incubo: ci sono persone che sognano di ritrovarsi nudi in mezzo alla gente, indifesi, io mi ritrovo con la mia amata Pentax senza scheda, impossibile fare fotografie, impossibile testimoniare questa mattinata di tristezza e delusione che non rivivro mai piu, sono nudo pure io. Con me ho però l’Ipad, l’ho portato per scrivere e forse riuscirò a fare qualche scatto, non sarà la stessa cosa, ma quando ė la stessa cosa? Quando riviviamo lo stesso istante, le stesse emozioni? Ogni momento ė unico e irripetibile e certe magie non tornano più, neanche i momenti che vivrò oggi.
Salgo senza fretta, l’aria è fresca, quasi fredda, il bosco culla i miei pensieri, i miei ricordi: penso a quando vi sali nel lontano 1996 in compagnia di Maura, la bocca storta in attesa di una non facile operazione, ripenso alle salite in compagnia di Davide al ritorno dalle vacanze all’Elba, all’incontro con le quattro anziane sorelle di Bedonia, al mattino che vidi le isole della Toscana, a questa mattina, triste, deluso, solo in cima a questa vetta, una volta in più nudo davanti al mondo che ho di fronte.
Non so cosa sará, in amore, nelle amicizie, sul lavoro, non ho la sfera magica, in auto anziche Cash ascoltavo Jovanotti, sicuramente due universi lontani, ma tra le tante parole ascoltate mi risuona in testa la frase che “è bello vivere anche se si sta male” e in questo istante la sento mia più che mai.