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Salita al monte Penna

L’escursione al Piano della Cavalla della settimana precedente ha lasciato strascichi inaspettati come mal di gola, tosse, raffreddore: una settimana di antibiotici e antinfiammatori per provare a rimettermi in sesto, ma in forma non sono.
Il venerdì sera torno comunque in valle, appena arrivato a casa guardo un po di Propaganda Live per ascoltare i commenti sul nuovo governo e poi a dormire presto.
La mattina del sabato è dedicata alla semina dell’orto, anno dopo anno sto imparando, peccato che di anno in anno mi dimentico tutto.
Nel pomeriggio c’è l’annuale appuntamento sul passo del Crociglia per il gemellaggio tra Torrio e Selva, mancato una sola volta negli otto precedenti appuntamenti, non mancherò neppure quest’anno, mancherò invece alla cena serale, non ne ho voglia, non sono dell’umore, alle sette torno a casa e a casa resto.
La notte mi porta riposo e voglia, voglia di camminare. Mi sveglio poco dopo le sette, c’è il sole, nessuna nuvola all’orizzonte, si, vado: il problema è dove andare, come detto la forma non è delle migliori e i sentieri in questo periodo sono letteralmente invasi dalle zecche dei caprioli, è un attimo trovarsele addosso ed il peggio è togliersele in maniera adeguata.
Scartato il Ragola, classico appuntamento di agosto, scartato il lago Nero, troppo breve o l’anello comprendente il monte Nero, troppo faticoso, escluso l’Aiona per la lunghezza dell’anello ed escluso il Trevine, in agenda ai primi di luglio con gli amici di Torrio, mi resta la classica salita al monte Penna, la classica di apertura dei miei giri in valle. E monte Penna sia.
Alle nove lascio l’auto al bivio con il viale che porta alle casermette, carico lo zaino con obiettivi e treppiede e parto.
Procedo con calma sulla carrareccia che porta al passo dell’Incisa, l’aria è fresca, ma non fredda, si sta bene, ai lati della strada alberi abbattuti dal freddo inverno appena lasciato alle spalle, va bene le rigide condizioni ambientali, ma anche tanta incuria, si, tanta davvero.
In breve sono al passo, l’ultima volta era stata a Pasqua o giù di li con Cioppi, Gian e Mattia, fresco di elezione in Senato.
A questo punto inizia la mia salita verso la cima dedicata al dio Pen, l’affronto con calma, tanta calma, passo dopo passo, cerco di regolare il respiro seppur a fatica e malgrado le mie condizioni arrivo in cima senza una sola sosta. Dimenticavo, il bosco che attraverso è un disastro, più del tratto precedente.
Arrivo in cima e sulla cima incrocio un altro escursionista, seduto, intento ad ammirare il paesaggio.
Lo saluto e mi siedo poco lontano, ai piedi della statua della Madonna. Come mi siedo noto che alla base hanno applicato la fotografia di un escursionista e scrittore morto lo scorso anno.
Visti gli sforzi e sacrifici fatti in settimana, mi cambio immediatamente maglia e metto una felpa che mi sono portato, per lo meno mi riparerà dal vento.
La vista oggi non è delle migliori, ma si vede il mare, c’è una nave di fronte a Portofino e si vede la catena dei monti della val Trebbia, non oltre. Si vedono pure il Crociglia, il Maggiorasca, il Ragola, si vedono le ultime nebbie della notte mentre si dissolvono al sole del mattino.
Non mi fermo molto, dieci, forse quindici minuti, minuti per fare qualche scatto, per godere del panorama, per godere del silenzio che mi circonda poi è l’ora di scendere e tornare verso casa, ma tornerò, si, tornerò, a godere di questa vista di infinita bellezza.

Acque

L’ Aiona d’inverno, pt 2

A questo punto cosa facciamo? Andiamo avanti. La salita verso la sella non ha punti di riferimento, in questo tratto i segnali sono dipinti sulle pietre coperti dalla neve, sono un paletto emerge dalla coltre bianca ed è quello il nostro primo riferimento.
Con Gian restiamo a bocca aperta davanti ad un abete imbiancato, sembra un opera d’arte: una volta in cima a questa salita appare davanti a noi il tratto pianeggiante completamente innevato e dal quale emergono i totem del parco ed un escursionista che sta scendendo dalla vetta dell’Aiona, sicuramente il primo a salirci oggi.
Ci incrociamo, saluti d’obbligo e affrontiamo l’ultimo tratto che ci divide dalla cima del monte.
Giampiero ha definitivamente tolto le racchette, io preferisco calzarle, nel mentre i quindici che avevamo superato hanno inserito il turbo e pare vogliano fare a gara con noi per chi arriva primo e contemporaneamente dal sentiero di Giacopiane compare una coppia, sembra davvero uno sprint a chi raggiunge per primo la croce.
Poi, finalmente, siamo in cima e le nuvole che offuscavano l’orizzonte sono ora sopra di noi, ci siamo noi, la coppia e alla spicciolata anche i quindici, per fare una fotografia alla croce bisogna prendere il biglietto come dal verduraio.
Sto letteralmente godendo per il solo fatto di essere qui e poco male se non si vede il mare, non si vedono le Alpi, non importa, sono qui, ad ammirare la mia valle, i monti della mia valle ed il panorama che la clemenza del tempo mi fa vedere.
Quanto stiamo in cima all’ Aiona? Dieci minuti forse, poi Giampiero inizia ad avere freddo, lui che è montanaro nato e cresciuto e allora iniziamo a scendere.
Nella discesa ne approfittiamo per mangiare un po di pane e cioccolata, sarà il nostro pranzo e nel cammino verso verso la sella incrociamo almeno una dozzina di escursionisti, dai quattordici agli ottanta anni, si, incrociamo un signore che ottanta anni li ha tutti, complimenti.
Nell’attimo in cui arriviamo sulla sella le nuvole scendono improvvisamente ad offuscare il nostro cammino, si vedono a malapena una ventina di metri di neve, pochi segni, mi ansio un po, ma mi consolo pure di essere in compagnia di Giampiero, lui non fa una piega.
Già, la splendida giornata di sole del mattino si è rovinata, ora le nuvole la fanno da protagonista, usciamo dal tunnel nebbioso e siamo nella discesa verso il passo della Spingarda.
Sul passo altre sei sette persone, alcune delle quali hanno percorso la lunga strada che dalla segheria porta a Moggia Negretta e quindi al passo, bravi, peccato che sia un percorso che non offre panorami particolari.
Scambiamo due battute e li salutiamo, Giampiero sempre con le ciaspole in mano, io con la mia Pentax K3.
Ripercorriamo la strada dell’andata, sempre sotto le nuvole, ai Prati del Cantomoro incrociamo un paio di fondisti, più avanti un gruppetto di sei persone che ci chiedono da dove arriviamo e si stupiscono dei nostri tempi di percorrenza, già, le gambe lunghe!
Una volta arrivati sul passo dell’Incisa troviamo il mondo, decine di persone, eviterei il termine escursionisti, più appropriato definirli gitanti, a passeggio sulla neve, qualcuno di questi con la tuta da ginnastica, zuppa naturalmente. Infine siamo alle Casermette, come ho anticipato ci sono macchine ovunque, se ieri al rifugio hanno fatto duecento coperti, oggi avranno superato sicuramente questa cifra. Entriamo all’interno della struttura quando sono le tre e stanno facendo accomodare due tavoli da dieci persone, bravi, questa è ospitalità.
Con Gian beviamo un caffè e ci accomodiamo ai tavoli all’esterno a godere della vista del Penna, il dio Pen, davanti al quale danzano le nuvole in un vedo, non ti vedo quasi irritante. Poi purtroppo viene il momento di scendere verso Amborzasco per Giampiero, verso Genova per me e l’attesa di tornare quanto prima su queste vie, tra questi monti, in questo paradiso.

L’ Aiona d’inverno, pt 1

Il campanile della chiesa batte le nove quando esco di casa per andare a chiamare Giampiero: Vicosoprano è baciato dal sole del mattino mentre i primi raggi cominciano ad illuminare i prati sopra casa.
Con il mio compagno di avventura ci mettiamo d’accordo per incontrarci ad Amborzasco alle 10.15: pulisco la stufa a pellet, chiudo l’acqua e chiudo casa e vado all’ingresso del paese a prendere l’auto che è sotto ad un fitto strato di ghiaccio. Questa notte le temperature sono scese parecchio sotto lo zero, ieri sera alle undici, mentre transitavo sul passo del monte di Mezzo, il termometro segnava meno cinque, ancora adesso siamo sotto di tre.
Quando arrivo a Pozzo mi appaiono il monte Penna e l’Aiona, si, è davvero un bella giornata, fredda, ma illuminata, benedetta dal sole e questo fa la differenza.
Una volta raggiunto Giampiero dobbiamo decidere cosa fare, se salire all’ Aiona dal paese o partire in quota dalle Casermette dove si stanno dirigendo macchine su macchine: per quanto non mi spiacerebbe percorrere il sentiero che dal paese porta al monte, questo è davvero lungo e preferisco optare per la seconda opzione.
Saliamo in auto ed in breve giungiamo a destinazione, ci sono macchine un po ovunque, ma sono ancora niente rispetto a quelle che vedremo nel pomeriggio, in ogni caso troviamo parcheggio e in un paio di minuti siamo pronti per la partenza.
Il fondo della pista che porta al passo dell’Incisa è sufficientemente compatto, per cui decidiamo di non calzare le ciaspole, ma di proseguire con gli scarponi. Pochi metri e svoltiamo sulla sinistra per imboccare una scorciatoia che ci permetterà di tagliare il percorso di qualche centinaio di metri ed in breve sbuchiamo nuovamente sulla pista da fondo proprio nell’attimo in cui arrivano tre sciatori che rincontriamo pochi minuti dopo sul passo dove hanno fatto inversione.
Sul passo ci sono alcuni gitanti intenti a scattare foto e selfie, noi giriamo immediatamente a destra sulla salita che porta alla nostra meta.
Devo ammettere che ha ragione Giampiero, le ciaspole non sono necessarie, anche se sicuramente lui fatica molto meno del sottoscritto visto che, a parità di altezza, ci dividono 25 chili di peso.
Dopo la prima salita ci fermiamo a fare due scatti al Penna, entro nella neve fresca e scendo di almeno 30 centimetri.
Il sentiero è battuto, non ho idea di quando e quanti siano passati prima di noi, ma per noi che stiamo transitando ora è decisamente più agevole. La cosa suggestiva, aldilà del silenzio, degli alberi imbiancati, è quella di percorrere un sentiero che ho sempre percorso unicamente d’estate con un paesaggio decisamente diverso. Fortunatamente lo conosco abbastanza bene e ho i miei punti di riferimento. Una volta attraversato l’unico ruscello sul percorso, superiamo due escursionisti che procedono lentamente mentre in cima alla salita del Cantomoro troviamo un gruppo di una quindicina di persone, molto variegato come età e sopratutto molto rumoroso. Si stanno sistemando e sono coloro che ci hanno preparato il terreno. A questo punto siamo costretti a calzare le ciaspole anche noi, riusciamo a superare il gruppo vacanze e procediamo. I Prati di Cantomoro sono uno spettacolo fantastico e li finalmente fa la sua comparsa il profilo dell’ Aiona. Rientriamo nel bosco per l’ultima discesa, attraversiamo la zona dei grossi roccioni e siamo ai Prati di Montenero. Qui il sentiero si divide, qualcuno ha tracciato una pista che porta a Prato Mollo, il nostro si addentra tra gli alberi carichi di neve, cinque minuti e siamo al passo della Spingarda, Giampiero che nel frattempo si era tolto le racchette è costretto ad indossarle nuovamente in quanto con gli scarponi sprofonda nella neve (continua)

Magia nella foresta del Penna

Sabato mattina di inizio febbraio. Le previsioni meteo dicono che sarà una giornata poco nuvolosa e una domenica in cui il tempo peggiorerà. Io, come sempre accade, non ho alcuna voglia di stare in città, sento Giampiero e ci mettiamo d’accordo per andare alle Casermette a fare un giro con le ciaspole.
Parto da Genova poco dopo le dieci, una breve sosta a Carasco e via verso la valle: dal bivio per la valle Sturla si vede l’Aiona imbiancato, uno spettacolo, ma si vedono pure delle nubi che ne coprono la cima, speriamo scompaiano nel mentre.
Guido con calma, cerco di godermi la campagna a riposo, sulla strada un paio di smottamenti, ennesima dimostrazione dell’abbandono del territorio da parte dello stato, con la esse minuscola.
Una veloce pausa a Rezzoaglio e mi dirigo verso Ascona, solo per il piacere di vedere il paese e fare un paio di scatti delle case sotto la neve.
Esaurita la mia missione, all’una e mezza sono ad Amborzasco, Giampiero arriva quasi subito e partiamo.
Troviamo la neve alle porte di Casoni, ma la strada è pulita, a parte qualche breve tratto gli spazzaneve hanno fatto il loro dovere
Una volta arrivati alle Casermette, ci prendiamo il tempo per un caffè.
All’interno del rifugio ci sono alcuni escursionisti che stanno cominciando a pranzare: c’è da dire che nelle tre, quattro volte che ci sono stato ho sempre trovato gente, è una grande scommessa e mi auguro che funzioni.
Terminato il sacro rito del caffè, è ora di partire, calziamo le ciaspole e via.
Imbocchiamo il sentiero segnato dal triangolo giallo che dal parcheggio auto porta al laghetto del Penna, ma li ci siamo stati due settimane prima, con Erika e Veronica, il nostro obiettivo questa volta è un altro.
Camminiamo sulle tracce lasciate da altri escursionisti, il sentiero è molto stretto, c’è più neve rispetto alla precedente escursione, ma su quella battuta il cammino non è faticoso.
Non impieghiamo molto ad arrivare al bivio per il laghetto, a questo punto proseguiamo per andare ad incrociare il sentiero che porta alla forcella da dove partono i sentieri per il Trevine e per il Penna. Questo tratto di percorso è abbastanza lungo, ci sono alcuni punti abbastanza ripidi, ma li superiamo agevolmente, ho avuto l’accortezza di portare i bastoncini e devo dire che sono parecchio d’aiuto, Giampiero non li ha portati, ma non ne ha bisogno, è impressionante la leggerezza con la quale si muove nel bosco.
Arriviamo quindi alle indicazioni verso le diverse mete: noi non andremo verso il Penna, non andremo verso il Trevine, ma scenderemo verso La Nave.
Per quanto ormai conosca il sentiero, faccio fatica a visualizzare la via, primo perchè è sotto 50/60 centimetri di neve, secondo perchè fatico a vedere i segnavia bianco rossi che lo tracciano, ma c’è Giampiero e non ho quindi problemi.
A questo punto cominciamo a scendere verso la nostra meta, sulla neve vergine, nessuna traccia, nessun impronta, nessun passaggio, solo un impressionante silenzio e le ciaspole di Giampiero che scendono venti trenta centimetri nel manto bianco, qualcosa di magico.
Terminata la discesa arriviamo nel tratto pianeggiante che porta all’avvallamento ai piedi del Penna, gli alberi in questo tratto sono piegati dalla neve e dal ghiaccio, uno spettacolo unico e sul sentiero sempre nessuna traccia.
Quando arriviamo a La Nave ci prendiamo il tempo di un autoscatto e ripartiamo velocemente. Fa abbastanza freddo, penso che saremo due tre gradi sotto zero, ma non si sta assolutamente male.
Come ho scritto, per fortuna c’è Giampiero perchè in alcuni punti non è semplice recuperare il sentiero, ci sono tratti nei quali il vento ha disegnato delle magnifiche onde, in altri transitiamo sotto a tunnel creati dagli alberi piegati dalla neve.
Il cammino da La Nave al passo del Chiodo è breve anche perchè tagliamo l’ultimo tratto scendendo abbondantemente fuori pista.
Una volta sul passo è il momento di fare gli ultimi scatti, l’atmosfera è surreale, silenzio assoluto, un tempo immobile, poi il cielo regala qualche fiocco di neve, è tempo di scendere verso il rifugio, verso una bevanda calda, verso casa, aspettando di rivivere la magia di luoghi così belli.

Anello del Penna

Mattino di metà agosto. Apro le persiane e davanti ai miei occhi si rivela una fantastica giornata di sole.
La festa al monte è passata, non ho nessun appuntamento particolare, tra le escursioni che ho già fatto ci sono l’anello della Valle Tribolata e quello del Ragola, potrei fare quello del Penna, tratto di catena compreso.
Salgo in macchina in direzione del passo del Chiodo, una volta sul valico svolto a sinistra verso Alpe, provincia di Parma: dopo pochi chilometri un bivio all’altezza del primo tornante mi porta al Rifugio Faggio dei Tre Comuni. Lascio la Sedici in un piccolo spiazzo, mi attrezzo e in pochi minuti sono pronto: prima di partire ho ripassato le indicazioni del giro, anche questa volta dovrei riuscire a non perdermi.
Il sentiero, segnavia 871, parte proprio di fronte al rifugio, in salita come normale che sia, in diagonale sul fianco della montagna, cammino con calma, supero un paio di ruscelli, un paio di tornanti, un paio di escursionisti, noto i resti di diverse carbonaie, si, la foresta del Penna ha dato legna e lavoro a molte persone e ancora lo da.
In poco più di mezzora raggiungo la cima del Trevine, il monte che ho scoperto solo la scorsa estate.
Vista fantastica, da qui riesco a scorgere le sagome degli escursionisti sulla cima del Penna e di altri nel passaggio tra questo ed il Pennino. Come al solito, la mia sosta dura il tempo di fare qualche scatto e riparto.
In meno di dieci minuti arrivo sulla sella dove arriva il sentiero proveniente dalla Nave, mantengo il sentiero principale e in pochi attimi sono ai piedi del Pennino, nella forcella del Penna.
Qui iniziano i cento metri di catena che portano sulla cima del Penna: sino ad una settimana prima non avevo mai percorso questa via: paura, pigrizia, abitudine, non saprei spiegare il perché, non è neppure cosi importante se vogliamo.
La prima parte di questa simil ferrata serve più che altro come aiuto a salire, a superare la pendenza, il tratto è largo, gli ultimi metri invece, dopo uno spigolo, per avere un sostegno visto il precipizio alle spalle.
Arrivo sulla cima in poco più di un ora da quanto sono partito: ci sono molti escursionisti, è la settimana di ferragosto e non posso certo pretendere di trovarmi da solo come accade in altri periodi.
Non resto molto in vetta, non mi piacciono le folle, il chiacchiericcio, no, adesso è comunque il momento di scendere e tornare verso il rifugio parmigiano.
La discesa lungo il bosco non è lunga, quindici minuti e sono al passo dell’Incisa.
A questo punto, invece di svoltare a destra e andare verso le Casermette, giro a sinistra lungo la carrareccia che mi condurrà al rifugio dove ho lasciato l’auto.
Su questa parte di escursione c’è poco da dire, non mi piacciono questo tipo di sterrati, questo come quello che dallo Zovallo porta a Prato Grande o come quello che da Canadello porta al lago Moo, li definirei fastidiosi per quanto necessari.
La descrizione di questo tratto di gita è quasi inutile al racconto se non che, poco prima delle sorgenti del Taro, incontro tre motociclisti intenti in un picnic in un piccolo spiazzo.
Dopo un lungo, ma veramente lungo tratto lungo la carrareccia trovo finalmente la deviazione per il sentiero che mi riporterà alla macchina. Un breve strappo, un paio di ruscelli asciutti da attraversare (sono sempre un paio i ruscelli che attraverso)  ed in breve arrivo a destinazione.
Questa scorciatoia, oltre a farmi godere delle meraviglie del bosco, mi ha permesso di accorciare il cammino di almeno di un quarto d’ora.
Arrivato dicevo, stanco, ma felice, come sempre accade dopo una nuova scoperta, ogni escursione.
Che dire? Del Penna c’è poco da dire, è il dio Pen come lo chiamavano gli antichi Liguri,  per assurdo è forse amato più dagli abitanti delle valli parmigiane che dagli Avetani, ma magari scrivo una cazzata, il tratto di cammino dal rifugio al Trevine e da questo alla vetta del Penna è assolutamente fantastico, dal passo dell’Incisa in poi sarebbe da evitare, ma come ho scritto è un male necessario, come altri, ma sicuramente non è dei peggiori e ampiamente giustificato dal resto del percorso.

Un anno, dodici immagini

Salita al Montarlone

Sabato di inizio ottobre; in mattinata ho fatto un giro nei boschi del paese alla vaga ricerca di funghi, ma ad Ascona non c’è traccia, non è l’anno, non lo era lo scorso anno, chi sa il prossimo.
Mangio velocemente un boccone e decido di partire per un escursione che mi ero ripromesso di fare qualche settimana fa.
E’ una meravigliosa giornata di sole e sarebbe un peccato non renderla utile in qualche modo.
Salgo in auto e mi dirigo verso il fondovalle, al bivio per Vicosoprano svolto, raggiungo Alpepiana e una volta in paese prendo la strada per Lovari; la mia meta è il Monte Montarlone, il monte del Lupo, una cima che ho scoperto solo la scorsa estate in occasione della gita della grande traversata da Vicosoprano a Pietranera.
Posteggio l’auto in un piccolo spiazzo prima della strada interpoderale che porta ai Prati di Foppiano, soliti rituali e parto.
Non ho idea di quanto tempo occorra per la salita, ma non ho fretta: ai Prati di Foppiano sono sempre salito in auto in occasione della festa che fanno gli abitanti di Alpepiana il primo sabato di luglio, in auto, non a piedi.
Fa caldo malgrado sia ormai autunno e la passeggiata è gradevole, il mio cammino è lungo la carrareccia, piacevole, i colori degli alberi che la costeggiano sono fantastici, le prossime settimane saranno ancora più belli.
Mi fermo un paio di volte a fare qualche foto, incrocio un capriolo, trovo un paio di auto ferme ai lati della strada, sono di cercatori di funghi, se ad Ascona non ce ne sono non è detto che non ne debbano nascere altrove.
In cinquanta minuti, minuto più, minuto meno, arrivo al rifugio posto sul passo, bevo un sorso d’acqua alla fontana, non curioso neppure dentro al rifugio e riprendo il cammino.
Poche centinaia di metri ed il sentiero entra nel bosco, quello che mi accoglie è un tappeto di foglie, uno spettacolo della natura, poche decine di metri e abbandono la strada, risalgo il pendio ai lati della strada e mi dirigo verso il bosco alle pendici del Montarlone.
Sulla sella alle pendici del monte il panorama diventa decisamente interessante, sul prato decine di mazze di tamburo, nel bosco foglie, foglie e foglie.
Salgo con calma, non c’è sentiero e metto qualche segnale accanto agli alberi per avere un riferimento al ritorno. Ad un tratto trovo una sorta di sentiero che mi porta ad un roccione con l’ennesima vista, avevo fatto già qualche foto la scorsa estate, da qui in poi proseguo sul crinale, questione di quattro, cinque minuti al massimo e sono in cima.
1500 metri, una croce ed una vista spettacolare che va dal monte Cantone sino alla Forcella, dalla Scoglina sino al passo del Brallo se non oltre, in assoluto la vista più bella della valle, soprattutto perché si vedono Ascona, Torrio ed il Ragola, i miei luoghi del cuore.
La mia sosta sulla cima non dura tantissimo, il tempo di fare gli scatti che volevo fare, trovo pure il tempo di non fare nulla, di godere del paesaggio e basta, di navigare con il cervello dove mi pare, di non navigare pure.
Infine riparto, sul crinale nessun problema, nel pendio che si inoltra nel bosco presto qualche attenzione in più, una volta sulla sella devo tornare sulla interpoderale, provo a riprendere la via, mi ritrovo a una decina di metri più in basso, ma infine la trovo. Dalla vetta al passo impiego poco meno di un quarto d’ora, poi in mezzora arrivo all’auto. Tra andata e ritorno ho percorso poco più di otto chilometri e mezzo,  per la vista più bella di tutte.

E il tempo vola

Era l’estate del 2012, cinque estati fa oramai, vola davvero il tempo, accidenti se vola.
L’estate precedente era stata un estate drammatica, vicende personali dure, durissime, ai limiti della devastazione.
Con l’inizio dell’autunno 2011 era nata la mia passione per le escursioni, una sorta di autoterapia, allo scoccare dei cinquanta, strano vero? Sino ad allora le mie gite erano sul Penna e ad esagerare al lago Nero, si, un po triste, lo ammetto.
Poi venne il Carevolo, per assurdo la madre di tutte le escursioni, prima il tentativo nella neve, poi quel magico pomeriggio di ottobre: come scrivo spesso altri giorni, altre storie.
Dicevamo: era l’estate del 2012. Libero, free as a bird come cantavano i Fab Four, iniziai il mio vagare tra le valli.
Prato Grande, il lago Bino, le cascate del Lardana ed il Lago Moo furono le mie scoperte in solitaria in quel lontano mese di luglio, nei primi tre giorni di vacanza ad agosto in sequenza salii, in compagnia di Adriano, sul Ragola, poi con Giampiero tornai a Prato Mollo a distanza di ventidue anni da un drammatico Capodanno che prima o poi dovrò raccontare ed il giorno successivo con Sylvie e altri amici di Torrio fu la volta della Gera Grande dove ero stato negli anni settanta e nell’estate del Duemila in una gita dai toni quasi grotteschi con Barbara e Stefania, cacchio, vola davvero il tempo.
Arriviamo quindi a martedì, il sette agosto per la precisione, quarto giorno di vacanza o se volete il secondo, visto che sabato e domenica non contano, dovevo fare qualcosa, scoprire qualcosa di nuovo, la mia personale macchina delle escursioni era in moto.
Avevo letto del monte Cifalco o Gifarco, dorsale tra val d’Aveto e val Trebbia, mi incuriosiva, sopratutto per un particolare che si trova sulla sua cima.
Proposi il giro ad Adriano che nel frattempo aveva recuperato le fatiche del Ragola e che accettò la proposta, si può fare.
Fissiamo l’appuntamento al bivio in fondo ai Torrini. Il tempo di lasciare la sua auto e pronti, partenza, via, con la mia Grande Punto ci dirigiamo verso il passo del Fregarolo: anche qui tanti ricordi, il rally di Sanremo in compagnia di Sonia, le sere ormai remote quando negli anni ottanta con gli amici di Villanoce andavamo a Fontanigorda a ballare, rispetto a Santo che era già un posto vivace sembrava di essere a Rimini, si, il tempo vola.
Una volta posteggiata l’auto sul passo, seguiamo le indicazioni scaricate da uno dei tanti siti di escursionismo, non chiedetemi quale, non mi ricorderei.
Ricordo perfettamente che il sentiero comincia in leggera salita per poi proseguire in un alternanza di saliscendi, dapprima è una carrareccia per poi restringersi e assumere le sembianze di un vero sentiero di montagna, la maggior parte del percorso sul lato avetano con vista sul Ghiffi e sul Bocco sino ad arrivare con lo sguardo sulla Ciapa Liscia e sul Crociglia, molti tratti all’ombra del bosco.
Una volta superato il passo del Fante in breve arriviamo ai piedi del Cifalco o Gifarco.
Leggiamo e rileggiamo le indicazioni, proviamo a salire dal lato che abbiamo di fronte, ma nessun varco, poi leggendo con attenzione scopriamo che dobbiamo proseguire, aggirare il montarozzo e prendere il sentiero alle spalle dello stesso: detto, fatto, dopo aver superato un passaggio alquanto stretto, ultimo ostacolo per la vetta, in cinque minuti siamo sulla cima.
La particolarità di questo panettoncino è quello di una spada conficcata nella roccia con tanto di riferimento a San Galgano, divertente imitazione della spada presente nella famosa abbazia in Toscana.
Una volta in cima. Adriano ne approfitta per riposare e prendere un po di sole, io per studiare il territorio e fare qualche scatto con la mia cara Pentax KX.
Ricordo che era una giornata calda e la visibilità era limitata da un po foschia, ma come ogni nuova esperienza c’era il piacere della scoperta, dell’avventura, della novità.
Poi ci fu il ritorno e quando si ripercorre la medesima via non c’è molto da raccontare, ecco, mi ricordo che non incontrammo nessuno, ne all’andata, ne al ritorno, ricordo invece una birra fresca in quel di Cabanne e nei giorni a seguire altre gite, altri giorni, nuove storie e il tempo vola.