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L’ultimo ricordo, prima dei prossimi

Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto e attuali conclusioni…
Si, se avessi previsto tutto questo, cosa avrei fatto? Se avessi saputo di restare chiuso per giorni, settimane in casa, forse sarei rimasto ad Ascona, magari mi sarei fatto qualche giorno di quarantena, avrei bruciato un po di giorni di ferie, ma sarei libero, felice, nel luogo che amo, nei luoghi che amo. Invece sono qui, in città, chiuso come tutti nella prigione che ci siamo costruiti, che ci protegge dal male, ma ci allontana, dalle nostre vite, dai nostri desideri, si, è un periodo soltanto, ma ogni attimo è unico, irripetibile, questo è il fatto, ogni minuto, ogni attimo che perdiamo è perso, per sempre. Non voglio recriminare o piangermi addosso e visto che tutti sperano, spero anch’io, per la salute dei miei cari, la mia, quella dei miei amici, per tornare a vivere la mia vita e dopo un mese che non scrivo, è venuto il momento di ricordare l’ultimo momento di libertà, di felicità, di felice solitudine, prima di altri momenti.
E’ il 22 febbraio, un sabato. Sono salito in valle in mattinata, il tempo per le solite faccende e poi finalmente il tempo di fare un’escursione, una nuova escursione, un nuovo sentiero da scoprire.
Con la macchina mi dirigo verso Alpepiana dove imbocco la strada che porta a Lovari. Voglio tornare sul Montarlone, a distanza di due anni e mezzo dalla mia salita in solitaria, è un luogo che amo, forse perché poco frequentato, forse perché da li si vede Ascona. Questa volta però decido di salire dal sentiero che parte dalla piccola frazione di Rezzoaglio anziché dalla vicinale che porta al rifugio dei Prati di Foppiano.
Posteggio l’auto e scendo a fare due passi tra le case disabitate di questo piccolo borgo il cui nome prende origine da lupo come il monte che lo sovrasta, due passi di numero  visto che il paese è davvero piccolo ed in meno di un minuto il giro è finito.
Il sentiero parte appena prima di entrare in paese, sulla destra, due triangoli gialli. Una breve salita porta alla piccola chiesa di Lovari chiamata il Tempio della Fraternità, è una costruzione in muratura che risale all’inizio degli anni cinquanta. Naturalmente è chiusa, per cui spendo solo qualche attimo a fotografarla e proseguo.
Il primo tratto del sentiero è molto largo, in pratica è una carrareccia in falsopiano utilizzata per il taglio degli alberi, facile, poi arrivati ad una radura inizia il sentiero vero e proprio, non presenta punti di rischio, ma in alcuni tratti è poco visibile cosi come i segnali. Mi viene in soccorso la app che ho scaricato sullo smartphone da un paio di mesi e mi sta dando grandi gioie per la sua precisione.
Come ho scritto, siamo a metà febbraio e la temperatura è piacevole, quasi troppo, il sole è leggermente velato, l’aria tiepida. Attraversando piccole macchie di felci e boschi di faggi, il sentiero prosegue regolare nel suo dislivello sino ad immettersi dopo un’ora di cammino in una ampia carrareccia. I segnavia mi indicano di proseguire sulla mia destra, in piano, verso il rifugio dove con mio stupore arrivo dopo pochi minuti di cammino. Qui capisco che se esiste un sentiero che porta alla cima è poco visibile o addirittura da tracciare. Imbocco quindi la solita carrareccia percorsa nelle precedenti occasioni: dopo la prima salita, quando la strada spiana e svolta a sinistra, la app mi indica un fantomatico sentiero sul crinale in mezzo ai faggi e che mi porterebbe sulla sella ai piedi del monte, dove arriverò con meno fatica percorrendo la strada utilizzata nelle precedenti occasioni.
Proseguo quindi sulla carrareccia ancora per trecento metri e quando finalmente spiana nuovamente taglio fuori sentiero sulla mia sinistra per raggiungere la sella ai piedi del monte.
Come già detto, il sentiero qui non esiste e se esiste è poco visibile. Mi addentro nella faggeta mantenendo la linea del crinale: arrivato sotto al roccione utilizzato precedenza per molti miei scatti, lo aggiro alla sua destra per poi risalire a zig zag nei faggi. Finalmente sono in cresta, un paio di foto dal roccione e risalgo il crinale verso la vetta dove arrivo in pochi minuti.
C’è poco da fare, quella dal Montarlone è una delle viste più belle che si possano godere dai monti della valle, a mio giudizio gli è superiore solo quella del Penna. Dal monte del Lupo oltre a godere di un panorama sulla val Trebbia, si ha una visione alternativa della valle, si vedono praticamente il 90% dei paesi da Rezzoaglio a Torrio e tutte le sue montagne.
Dopo le solite fotografie ed essermi perso in questa fantastica vista, viene il momento di tornare indietro.
Per il ritorno decido di prendere la carrareccia che scende dal rifugio e utilizzata nelle mie precedenti salite, non è una grande idea, il sentiero dell’andata è sicuramente più suggestivo, ma mi va di cambiare. In mezzora arrivo al bivio per Alpepiana e Lovari, una volta sulla strada svolto a destra e gli ultimi chilometri verso l’auto sono lunghi, interminabili. Si, le strade sterrate non sono mai delle grandi idee. Adesso il sole è sceso e l’aria fresca, ma passo dopo passo arrivo finalmente all’auto e posso tornare a casa, ad Ascona. Stasera mi aspetta il compleanno di Tommy, sedici anni. Come posso mancare?

Colori d’autunno, pt 2

Ritorno al Lago Bino

Finalmente sono arrivate le tante sospirate vacanze.
Quelle dello scorso anno erano andate come erano andate, tra febbri, colpi di tosse e sudorazioni non gradite, poi tutto si era risolto grazie ad un medico competente, una ecografia ed un taglietto per asportare la tiroide: dicono tolto il dente tolto il male, verissimo, fine dei giochi, game over.
Arrivo in paese il primo venerdì di agosto, non faccio in tempo a disfare i bagagli e mi chiama Alessandro: con Alice sono ospiti di Gianluca ad Amborzasco e vorrebbero andare a fare un giro da qualche parte.
Gli propongo il Lago Bino dove non sono mai stati, è il tempo della fioritura delle ninfee, loro sono agronomi e dovrebbe piacergli, per me sarebbe un ulteriore rivincita sulle sfighe del 2018, mi dicono che va bene.
L’appuntamento è per il sabato mattino a Santo Stefano, acquistiamo qualcosa da mettere sotto ai denti e ci dirigiamo verso il passo dello Zovallo.
Quando arriviamo a destinazione, il parcheggio è quasi al completo: incredibile, non possono esserci cosi tante persone in giro per i sentieri, poi facendo mente locale penso che è stagione di funghi e tutto si spiega.
Il tempo necessario per il cambio di calzature e partiamo, seguiamo il sentiero 035 che sale nel bosco sino ad arrivare ad una sella dove si attraversa una recinzione che ci porta nei pascoli del monte Zovallo. Ai nostri piedi si vede Pertuso, di fronte lo spartiacque sino al Carevolo, più lontano i monti della val Trebbia.
Velocemente arriviamo al bivio posto sotto ad un traliccio: qui abbandoniamo il vecchio segnavia per seguire il sentiero 037. Un breve passaggio nella faggeta e siamo ai piedi del monte Ragola. La salita, come l’escursione, l’ho descritta mille volte, una ripida rampa nel terreno roccioso che conduce ad un irto passaggio tra le rocce, è classificato EE, sicuramente bisogna fare attenzione a dove si mettono mani e piedi, ma se lo faccio io non è così terribile.
Arriviamo alla prima vetta del monte, ci fermiamo a fare qualche foto dopo di che ci dirigiamo verso la vetta principale posta a 1712 metri.
La giornata è bellissima, calda, molto calda, la vista ottimale anche se siamo ai primi di agosto. Ci fermiamo in vetta pochi minuti per ripartire immediatamente e scendere verso Prato Bure. Al contrario del solito non incontriamo mandrie di mucche o cavalli a pascolare sul grande prato. Il sentiero costeggia adesso il rio Lardana e attraversa un pianoro caratterizzato da faggi, bello, ma sicuramente più suggestivo con i colori dell’autunno.
Quando arriviamo a Prato Grande incontriamo finalmente la prima persona, naturalmente è un fungaiolo.
Ci fermiamo a mangiare un boccone al tavolo posto sotto ai faggi e dopo un abbondante mezzora ripartiamo: adesso il sole è alto e picchia forte, d’altronde è agosto, se non ora, quando?
Il cammino verso il lago potrei descriverlo a memoria, siamo sul sentiero 021: una breve salita subito dopo la baita, un rettilineo lungo il quale c’è un albero solitario, sui prati alla nostra destra pascola placida una mandria di mucche, un paio di curve, un cancello, la strada che prosegue in discesa, il bivio per il sentiero non segnato che porta sulla cima del Roccione (mt 1417), due rettilinei che costeggiano il Pramollo sul quale pascola un’altra mandria comandata da un toro decisamente vivace ed infine l’ultima discesa, qualche faggio sulla destra e tanto sole.
Quando arriviamo al bivio finale per il lago, chiedo ai miei compagni di viaggio di aspettare qualche minuto. Salgo sulla collinetta che sovrasta il lago per avere una visione diversa del lago e scattare qualche foto differente dal solito.
Una volta eseguita l’operazione raggiungo Alice ed Alessandro e ci dirigiamo verso il lago.
Sulle rive del piccolo bacino ci sono cinque donne intente a farsi dei selfie tra di loro, nessun altra presenza.
Attraversiamo il torrentello che alimenta il lago e ci fermiamo in una radura dove consumiamo il resto del nostro pranzo: panini, focaccia e frutta.
La sosta si riassume nelle solite fotografie e nel meritato riposo per i nostri arti poi viene il momento di ripartire.
Adesso fa caldo, molto caldo, lungo il sentiero assolato cerchiamo riparo nella poca ombra che offrono i faggi ai lati della strada.
Quando arriviamo a Prato Grande, dopo aver cercato inutilmente dell’acqua intorno al rifugio, imbocchiamo il sentiero 035, percorso che ci evita di risalire sul Ragola e soprattutto di percorrere l’assolato stradone che porta al passo.
Dopo l’inizio caratterizzato da un passaggio tra pini mughi, il sentiero è un lungo saliscendi nel bosco di faggi intervallato da piccole radure e da un passaggio esposto al sole sul fianco di un circo glaciale.
Lungo la via del ritorno non incontriamo un solo essere umano, ma abbiamo la visione di un capriolo che pascola nel bosco, ci vede o ci sente, fugge per qualche metro per poi fermarsi e attendere le nostre mosse, forse non ci vede, noi si e restiamo assorti a guardarlo, ammirati dalla sua bellezza e dalla sua innocenza, una visione degna di un film di Terrence Malick.
Sono passate da poco le quattro quando finalmente arriviamo al traliccio dove si uniscono i due sentieri, lo 035 e lo 037, attraversiamo il lungo pascolo e siamo all’auto: la gita è terminata, ci attende il ritorno a Santo Stefano ed una birra davvero meritata.

Dodici momenti del 2018

Il Ragola d’autunno, pt 2

Arrivo infine a Prato Grande dove affronto il secondo panino di giornata accompagnato da qualche frutto ed un pezzo di cioccolata. Seduto al tavolo del ristoro osservo tre contadini davanti alla baita che stanno trafficando con delle cavalle da riportare a casa e tre stalloni di un altra mandria che non gradiscono l’addio.
Finita la merenda devo decidere il da farsi, se proseguire sino al Roccione o rientrare verso casa, al lago Bino non sono in grado di arrivarci.
Opto per la prima soluzione, non mi sento ancora stanco e l’idea di vedere il lago Bino dall’alto mi solletica, è come incontrare una vecchia fiamma che non si vede da tempo.
Il tragitto per arrivare a destinazione è breve, supero il cancello dove c’è ancora uno dei mandriani alle prese con i cavalli, incrocio quattro escursionisti che procedono in senso contrario e sono ai piedi del Roccione. Qui non esiste un vero e proprio sentiero, ma si naviga a vista, guardi dove è la cima e viaggi in linea retta o quasi.
Pochi minuti e sono in cima, il tempo di sistemare treppiede e K3 e proprio sotto di me parte una coppia di caprioli: peccato, sarebbe stata una grande foto, ma sono stati più veloci di me o troppo lento io.
La vista è fantastica, ero salito fin qui lo scorso anno con Enzo di Vico, ma era agosto, altri colori, altra temperatura, altre sensazioni. Mi siedo e scatto, ai due laghi insieme, a uno, poi l’altro, dalla mia posizione privilegiata osservo padre, figlia e nipote di pochi mesi alla ricerca di funghi nella faggeta. Dopo avere addentato un pezzo di cioccolata è già il momento di tornare verso casa.
Scendo lentamente il Roccione e mi rimetto sulla carrareccia che porta a Prato Grande. Impiego pochi minuti ad arrivare: a questo punto posso scegliere se continuare sullo stradone o prendere il sentiero di mezzo che porta al traliccio e quindi al passo. Opto per la seconda soluzione, il sentiero è sicuramente più ombreggiato e decisamente più breve.
Quello che non ho calcolato è che adesso il sole è molto basso, me lo ritrovo negli occhi e per buona parte del viaggio è un tormento cercare i segnavia sugli alberi. Poi, ad un tratto, la stanchezza, le gambe che si irrigidiscono e non rispondono, il fiato corto, sempre più corto, maledetta tiroide!
Non senza fatica arrivo al traliccio ai piedi del Ragola, davanti a me solo il tratto di pascolo che porta alla staccionata e l’ultimo tratto di bosco. Poche centinaia di metri che sembrano interminabili, lunghissimi, ma alla fine arrivo alla macchina.
Potrei scrivere che è stato bellissimo, che i colori erano fantastici, che non vedevo l’ora di tornare sul Ragola e rivedere il lago Bino, tutto vero, in realtà quello che mi importa è essermi riappropriato del mio tempo e dei miei luoghi, rivivere i miei giorni, i miei passi e questo davvero non ha prezzo, non ha parole.

Il Ragola d’autunno, pt 1

E’ un sabato mattina di fine ottobre quando parto da Genova, l’estate ė ormai un lontano ricordo anche se le temperature non sono ancora autunnali, è inutile però salire il venerdì sera: per quanto le giornate siano calde, tra il tempo di accendere la stufa e quello di andare a dormire, la casa non si scalda.
Arrivo poco dopo le undici, lascio i miei in paese e riparto immediatamente, giusto il tempo di farmi fare due panini a Santo Stefano e sono sulla via dello Zovallo.
Lungo la strada faccio le solite soste ad immortalare i colori dell’autunno, sono fantastici, bellissimi, mi ci perdo letteralmente.
Non ė ancora mezzogiorno quando posteggio l’auto nel grande parcheggio del passo, ci sono diverse auto, ma in passato ho visto di peggio.
Mi preparo in un attimo e parto, ė il 20 di ottobre e sono in maniche corte, incredibile: il mio primo obiettivo ė la vetta del Ragola, il secondo ė Prato Grande, poi deciderò se proseguire o tornare indietro. Come ho scritto in precedenti post, è il momento di recuperare le escursioni mancate ad agosto.
Mi addentro nella larga strada del bosco, ė un tappeto di foglie, colori, riflessi, silenzi, io cerco di camminare con calma, per quello che sono capace. In settimana mi ha visto il chirurgo, dovrò essere operato e nel frattempo tenermi i problemi che mi porta la tiroide: lo scorso agosto è stato un tormento, adesso va meglio e cerco di recuperare e tenere vive le mie passioni.
In breve arrivo alla staccionata sulla sella, la supero e inizio a percorrere il sentiero che attraversa il pascolo che porta ai piedi del Ragola, che è li, davanti a me, finalmente.
È inutile che scriva che scatto una foto dietro l’altra, i pochi che mi seguono ancora lo sanno già.
Una volta raggiunto il traliccio inizia la Salita, con la S maiuscola, attraverso il boschetto e via, un passo dopo l’altro, piano piano, ho un po di fiatone, ma pazienza, vuol dire che faro più soste del consueto.
Da lontano vedevo la sagoma di una coppia di escursionisti, ma salendo non li vedo più, li ritrovo una volta raggiunta la prima cima del monte, sono ragazzo e ragazza, in qualche modo mi impediscono di impadronirmi della vetta, di godere di questo momento fantastico, per cui opto di continuare e raggiungere la seconda cima, quella più alta.
Arrivo a destinazione in pochi minuti, trovo un’altra coppia intenta a fare merenda, ma questa volta mi fermo pure io.
Non mi ricordo una sosta cosi lunga in una delle mie escursioni, ma viste le mie condizioni questa volta è necessaria. Dopo una mezzora riparto, scendo il pendio del monte e in pochi minuti sono al Prato Bure in mezzo a mucche, cavalli e tori.
In questo tratto di escursione i colori del bosco sono bellissimi, l’autunno è nella sua massima espressione, peccato per le nuvole che ombreggiano il paesaggio (continua)

Ritorno sul monte Nero

Sabato di metà ottobre. Sono arrivato in valle in mattinata, il paese è praticamente vuoto, ma questa non è una novità.
Nel frattempo è stata emessa la sentenza: dieci giorni fa mi ha visto un medico del Galliera e ha sentenziato che è tiroide al 100% e devo essere operato, senza se e senza ma. La lista di attesa dice 12 mesi. Viva la sanità pubblica.
Nell’attesa della visita del chirurgo, io cerco di recuperare le escursioni perdute in estate. La giornata è splendida per quanto l’orizzonte sia disturbato dalle solite nuvole, io mi sento decisamente meglio che ad agosto e cerco di godere di questo nuovo regalo. Dove andare però? Nella mia personale wishlist mancano ancora quattro monti, sono certo che non riuscirò a salirli tutti e alla fine opto per ritornare sul monte Nero.
Arrivare al parcheggio dello Zovallo è un impresa: i colori dell’autunno sono fantastici e mi ritrovo a fermare l’auto ogni due minuti. Si, l’autunno è davvero la mia stagione preferita, almeno per le fotografie.
Una volta posteggiata la Sedici, mi preparo e avvio l’app sullo smartphone per verificare durata e tempi dell’escursione.
Il tratto iniziale è lo stesso che porta la Lago Nero, ma questo l’ho già scritto e riscritto, finisco per ripetermi come al solito, ma ripetere i sentieri, le esperienze, i giorni non è un delitto.
Nel mio cammino noto numerosi canali di scolo che attraversano il sentiero, probabilmente sono stati scavati per far defluire al meglio le piogge che inevitabilmente cadranno nei prossimi tempi.
Arrivato al primo bivio trovo una staccionata ed una panchina nuove di zecca. Beh, che dire? Tutto ciò che abbellisce i nostri sentieri è ben accetto.
Imbocco il sentiero di sinistra, lentamente, non ho alternative, incrocio una coppia di escursionisti ed in breve arrivo sul piano. Questione di minuti e sono ai piedi della salita più dura di tutte tra quelle che conosco in val d’Aveto e val Nure, forse è peggio quella del Ragola, ma no, non c’è gara. Le ultime due volte sono arrivato in cima senza soste, questa volta non credo  potrò farcela e cosi sarà.
Tra una sosta e l’altra arrivo in cima, ma la fatica è tanta. Faccio un salto al belvedere sulle Buche e poi via, verso la vetta, dove trovo una escursionista intenta a fare merenda, saluto, due scatti e via, no, non ho nessuna voglia di compagnia.
La giornata è bella, ma la luce particolare non aiuta per le fotografie che vorrei fare, pazienza, qualcosa di buono uscirà lo stesso.
Il sentiero lo conosco, lo conoscete ormai anche voi e non presenta sorprese, incrocio un altro escursionista mentre scendo la seconda vetta, poi più nulla e nessuno.
Il tratto che scende dalla Costazza al lago è quello che amo meno, mal segnalato e sconnesso, il terreno è umido per le recenti piogge, ma è questione di dieci minuti o giu di li e finalmente sono a destinazione.
Ci sono quattro cinque persone ed un silenzio irreale: scatto qualche immagine, una delle quali a mio giudizio decisamente bella, poi riprendo il cammino.
Scendo la parte sconnessa che porta alla prima torbiera, supero una coppia di gitanti, raggiungo quindi il breve tratto tra le rocce che porta al bivio per l’albergo e sono finalmente sulla parte in piano del sentiero. Altri lavori di abbellimento, staccionata e panchina, un invito e un pannello all’altra torbiera, ma la sorpresa sarà più avanti: in un tratto dove si ci inzuppava letteralmente a causa del fango, hanno creato una sorta di marciapiede fatto di pietre e legno, davvero un lavoro notevole.
Non sono ancora le cinque che arrivo al parcheggio dello Zovallo. L’app mi dice che ho percorso 7 chilometri e mezzo in un due ore e un quarto al netto delle soste, non male viste le mie condizioni.
A questo punto posso riprendere la via di casa, un sorso d’acqua fresca alla sorgente sul passo, due fotografie al Groppo Rosso e sono in paese. Non so se avrò la fortuna di fare ancora escursioni in questo bellissimo primo mese d’autunno, non so davvero, ma oggi va bene così.

Salita al monte Penna

L’escursione al Piano della Cavalla della settimana precedente ha lasciato strascichi inaspettati come mal di gola, tosse, raffreddore: una settimana di antibiotici e antinfiammatori per provare a rimettermi in sesto, ma in forma non sono.
Il venerdì sera torno comunque in valle, appena arrivato a casa guardo un po di Propaganda Live per ascoltare i commenti sul nuovo governo e poi a dormire presto.
La mattina del sabato è dedicata alla semina dell’orto, anno dopo anno sto imparando, peccato che di anno in anno mi dimentico tutto.
Nel pomeriggio c’è l’annuale appuntamento sul passo del Crociglia per il gemellaggio tra Torrio e Selva, mancato una sola volta negli otto precedenti appuntamenti, non mancherò neppure quest’anno, mancherò invece alla cena serale, non ne ho voglia, non sono dell’umore, alle sette torno a casa e a casa resto.
La notte mi porta riposo e voglia, voglia di camminare. Mi sveglio poco dopo le sette, c’è il sole, nessuna nuvola all’orizzonte, si, vado: il problema è dove andare, come detto la forma non è delle migliori e i sentieri in questo periodo sono letteralmente invasi dalle zecche dei caprioli, è un attimo trovarsele addosso ed il peggio è togliersele in maniera adeguata.
Scartato il Ragola, classico appuntamento di agosto, scartato il lago Nero, troppo breve o l’anello comprendente il monte Nero, troppo faticoso, escluso l’Aiona per la lunghezza dell’anello ed escluso il Trevine, in agenda ai primi di luglio con gli amici di Torrio, mi resta la classica salita al monte Penna, la classica di apertura dei miei giri in valle. E monte Penna sia.
Alle nove lascio l’auto al bivio con il viale che porta alle casermette, carico lo zaino con obiettivi e treppiede e parto.
Procedo con calma sulla carrareccia che porta al passo dell’Incisa, l’aria è fresca, ma non fredda, si sta bene, ai lati della strada alberi abbattuti dal freddo inverno appena lasciato alle spalle, va bene le rigide condizioni ambientali, ma anche tanta incuria, si, tanta davvero.
In breve sono al passo, l’ultima volta era stata a Pasqua o giù di li con Cioppi, Gian e Mattia, fresco di elezione in Senato.
A questo punto inizia la mia salita verso la cima dedicata al dio Pen, l’affronto con calma, tanta calma, passo dopo passo, cerco di regolare il respiro seppur a fatica e malgrado le mie condizioni arrivo in cima senza una sola sosta. Dimenticavo, il bosco che attraverso è un disastro, più del tratto precedente.
Arrivo in cima e sulla cima incrocio un altro escursionista, seduto, intento ad ammirare il paesaggio.
Lo saluto e mi siedo poco lontano, ai piedi della statua della Madonna. Come mi siedo noto che alla base hanno applicato la fotografia di un escursionista e scrittore morto lo scorso anno.
Visti gli sforzi e sacrifici fatti in settimana, mi cambio immediatamente maglia e metto una felpa che mi sono portato, per lo meno mi riparerà dal vento.
La vista oggi non è delle migliori, ma si vede il mare, c’è una nave di fronte a Portofino e si vede la catena dei monti della val Trebbia, non oltre. Si vedono pure il Crociglia, il Maggiorasca, il Ragola, si vedono le ultime nebbie della notte mentre si dissolvono al sole del mattino.
Non mi fermo molto, dieci, forse quindici minuti, minuti per fare qualche scatto, per godere del panorama, per godere del silenzio che mi circonda poi è l’ora di scendere e tornare verso casa, ma tornerò, si, tornerò, a godere di questa vista di infinita bellezza.

Salita al Montarlone

Sabato di inizio ottobre; in mattinata ho fatto un giro nei boschi del paese alla vaga ricerca di funghi, ma ad Ascona non c’è traccia, non è l’anno, non lo era lo scorso anno, chi sa il prossimo.
Mangio velocemente un boccone e decido di partire per un escursione che mi ero ripromesso di fare qualche settimana fa.
E’ una meravigliosa giornata di sole e sarebbe un peccato non renderla utile in qualche modo.
Salgo in auto e mi dirigo verso il fondovalle, al bivio per Vicosoprano svolto, raggiungo Alpepiana e una volta in paese prendo la strada per Lovari; la mia meta è il Monte Montarlone, il monte del Lupo, una cima che ho scoperto solo la scorsa estate in occasione della gita della grande traversata da Vicosoprano a Pietranera.
Posteggio l’auto in un piccolo spiazzo prima della strada interpoderale che porta ai Prati di Foppiano, soliti rituali e parto.
Non ho idea di quanto tempo occorra per la salita, ma non ho fretta: ai Prati di Foppiano sono sempre salito in auto in occasione della festa che fanno gli abitanti di Alpepiana il primo sabato di luglio, in auto, non a piedi.
Fa caldo malgrado sia ormai autunno e la passeggiata è gradevole, il mio cammino è lungo la carrareccia, piacevole, i colori degli alberi che la costeggiano sono fantastici, le prossime settimane saranno ancora più belli.
Mi fermo un paio di volte a fare qualche foto, incrocio un capriolo, trovo un paio di auto ferme ai lati della strada, sono di cercatori di funghi, se ad Ascona non ce ne sono non è detto che non ne debbano nascere altrove.
In cinquanta minuti, minuto più, minuto meno, arrivo al rifugio posto sul passo, bevo un sorso d’acqua alla fontana, non curioso neppure dentro al rifugio e riprendo il cammino.
Poche centinaia di metri ed il sentiero entra nel bosco, quello che mi accoglie è un tappeto di foglie, uno spettacolo della natura, poche decine di metri e abbandono la strada, risalgo il pendio ai lati della strada e mi dirigo verso il bosco alle pendici del Montarlone.
Sulla sella alle pendici del monte il panorama diventa decisamente interessante, sul prato decine di mazze di tamburo, nel bosco foglie, foglie e foglie.
Salgo con calma, non c’è sentiero e metto qualche segnale accanto agli alberi per avere un riferimento al ritorno. Ad un tratto trovo una sorta di sentiero che mi porta ad un roccione con l’ennesima vista, avevo fatto già qualche foto la scorsa estate, da qui in poi proseguo sul crinale, questione di quattro, cinque minuti al massimo e sono in cima.
1500 metri, una croce ed una vista spettacolare che va dal monte Cantone sino alla Forcella, dalla Scoglina sino al passo del Brallo se non oltre, in assoluto la vista più bella della valle, soprattutto perché si vedono Ascona, Torrio ed il Ragola, i miei luoghi del cuore.
La mia sosta sulla cima non dura tantissimo, il tempo di fare gli scatti che volevo fare, trovo pure il tempo di non fare nulla, di godere del paesaggio e basta, di navigare con il cervello dove mi pare, di non navigare pure.
Infine riparto, sul crinale nessun problema, nel pendio che si inoltra nel bosco presto qualche attenzione in più, una volta sulla sella devo tornare sulla interpoderale, provo a riprendere la via, mi ritrovo a una decina di metri più in basso, ma infine la trovo. Dalla vetta al passo impiego poco meno di un quarto d’ora, poi in mezzora arrivo all’auto. Tra andata e ritorno ho percorso poco più di otto chilometri e mezzo,  per la vista più bella di tutte.

Festa al Maggiorasca, pt 2

La prima persona che incontriamo è la sindaca in compagnia del fratello: una donna in gamba, con le palle come si usa dire, magari non sarà simpatica a tutti, ma sa gestire il Comune, la cosa pubblica, come nessuno. Salutiamo, qualche parola, poi ci mettiamo alla ricerca degli altri asconesi che arrivano poco dopo: Abi con moglie e figlia, Stefano con Simone e la Paoletta, moglie di Giampaolo, un bel pezzo di Ascona.
Pochi istanti e comincia la funzione celebrata da Don Ferdinando: resterà, partirà? Girano voci, tante voci. Se andrà via peccato, sarà una grossa perdita, per Ascona, ma non solo. Se resterà meglio per molti.
Ascoltiamo messa distrattamente poi ci accodiamo alla processione, siamo in fondo, i primi sono già ai piedi della statua della Vergine.
Una volta celebrata messa e processione si può mangiare, pranzo al sacco naturalmente: fa caldo, tanto caldo, non c’è la vista spettacolare di inizio settimana, ma merita comunque.
E’ l’una e mezza quando decidiamo di tornare indietro: ripeto, fa caldo, abbiamo partecipato, qualcuno vuole andare a vedere le auto da rally, a me basta tornare a casa, mi aspettano a Torrio per la serata.
Ci fermiamo al rifugio del Monte Bue per un caffè, incontriamo due signore che sfoggiano una maglietta con la scritta Castagnola, scambiamo qualche parola, apprezzano i nostri fuochi d’artificio, un incontro simpatico.
Piano piano il gruppo si ricompatta, la maggioranza scende a piedi a Rocca, solo Alberto ed io optiamo per il ritorno a piedi, perché no?
Salutiamo la compagnia e ci avviamo  sulla via del ritorno.
In pochi minuti siamo alla Cipolla, riempiamo la borraccia e via, verso casa, superiamo l’Astass dove ci sono ancora dei campeggiatori.
Pochi minuti dopo arriviamo all’incrocio con il sentiero che scende dal Monte Roncalla.
Li incontriamo Alessia, con madre e figlia, pochi metri più indietro Flavio con sorella e Simona, gente di Ascona, gente di Torrio.
Salutiamo Alessia, da dove vieni, dove vai, cosa vuoi chiedere a chi vedi tutti i giorni? Solite cose, un saluto, ci vediamo in paese.
Salutata la prima compagnia è l’ora di Flavio e torriesi al seguito, ma una voce rompe il silenzio: Silva, vieni qui, corri.
Faccio pochi metri e, distesa sul sentiero, c’è la madre di Alessia con il piede completamente girato: impressionante, anche se non c’è quasi nulla che mi impressioni.
Cazzo facciamo? Non c’è campo, bisogna chiamare i soccorsi.
Alberto resta con Alessia e madre e figlia, io corro verso il Groppo sperando che ci sia campo per chiamare i soccorsi.
118, buongiorno. Spiego dove siamo, la natura dell’incidente, mi chiedono informazioni sull’infortunata, come possono intervenire, io suggerisco, ma non posso trovare la soluzione, siamo in montagna, su di un sentiero.
Resto li, non mi godo neanche il panorama, qualche minuto e chiamata anonima: buongiorno, vigili del fuoco.
Mi chiedono cosa è successo, quali sono i danni, dove possono atterrare: alla Cipolla ci sono troppe persone, il sentiero è stretto anche per un trattore, l’unica soluzione è provare l’atterraggio sul Groppo o al limite alla Roncalla.
Non si preoccupi, non mi preoccupo, dodici, quattordici minuti  e siamo li.
Non passa molto e mi raggiunge un signore, dice di essere un dottore, che ha sistemato il piede alla madre di Alessia, quando mi richiamano i vigili del fuoco spiega con dovizia di particolari come è intervenuto.
Poi arriva l’elicottero, gira, gira, gira, prova ad appoggiarsi su uno dei picchi del Groppo, non riesce, prova sul prato del Pero, niente, scende fino a Rocca, atterra e riparte, ha sicuramente impiegato meno ad arrivare da Genova in valle che a far scendere i soccorritori. Poi ritorna, pochi attimi, si appoggia appena sul solito picco e scendono due vigili del fuoco con l’attrezzatura. Si fa incontro il medico, spiega anche a loro l’accaduto, raggiungiamo la ferita.
E’ stesa a terra, il piede adesso è in assetto normale, Alessia vorrebbe raggiungere il padre che l’attende alla Cipolla, vai pure, restiamo noi. Mentre i soccorritori cominciamo a sistemare la ferita sulla barella, arrivano due volontari del Soccorso Alpino, di corsa, ma da dove arrivano? Sono stati velocissimi.
Pochi minuti e inizia il trasporto verso l’elicottero che sta roteando sopra le nostre teste, avvisano via radio e come sbuchiamo allo scoperto il velivolo è in posizione, arriva la barella e l’elicottero si appoggia appena per non spegnere i motori, caricano la ferita, i due del Soccorso Alpino salutano e l’elicottero riparte.
Cazzo che bravi, questa gente si che è in gamba. Il tempo di commentare l’intervento con Flavio ed è ora di ripartire.
Mentre scendiamo ci raggiunge e supera Claudio, un amico, due parole poi lui devia per un altro sentiero. Quando arriviamo alla Priosa scattiamo un paio di foto ricordo, poi di corsa verso Ascona, verso l’ultimo sabato sera di vacanza, verso nuovi momenti, dentro di noi tante emozioni da raccontare.