La presenza

Mi ritorni in mente,
anche se in realtà non sei mai andata via,
ti ho portata con  me,
dentro di me,
in ogni giorno,
in ogni istante.
Ho provato a scacciarti,
ho provato a cancellarti,
ma sei sempre stata qui,
nella mia testa,
nel mio cuore,
sei nelle mie mani,
in ogni mio pensiero.
Sei presente,
un ombra nei miei giorni,
un fantasma nelle mie notti,
un nome che riecheggia nella mia mente
sino a farla scoppiare,
di dolore,
di rabbia,
di amore.
Non andrai via,
anche se vorrei dimenticarti,
non ti dimenticherò,
anche se vorrei scacciarti,
ma vorrei tornare a vivere la mia vita,
senza di te,
con il tuo dolce ricordo.

scritta a Genova nell’aprile 2018
Buon compleanno.

Un venerdì particolare

Venerdì è il giorno che amo di più, è il giorno del ritorno, il giorno in cui la settimana lavorativa giunge finalmente al termine e io posso tornare ad Ascona, a vedere gli amici, a godere del silenzio, della vista dei monti, a vivere la dimensione che amo di più.
Lo scorso venerdì parto da Genova poco dopo le sei e mezza di sera, il traforo di Ferriere è un lungodegente e sino a metà luglio non sarà transitabile per cui sono costretto a percorrere la SS45: diciamo che non sarebbe neanche male, ma la conosco poco e fatico a memorizzarne le curve che portano a Montebruno.
Una volta superato il piccolo comune della Val Trebbia imbocco la provinciale che porta al passo della Scoglina, il fondo del tratto in salita è a dir poco vergognoso, una buca dopo l’altra, ma non trovo traffico contrario e riesco a evitare buona parte delle voragini che mi si parano contro.
Una volta superato il paesino di Costafinale trovo sulla carreggiata due mucche che ostruiscono il passaggio.
Memore dei miei slalom giovanili tra le mucche di Ascona, provo a passare lo stesso, ma la prima delle due si volta in maniera repentina e prova a incornare la mia Sedici, mi blocco, faccio una breve retromarcia e pigio il clacson per vedere se il suono le convince a spostarsi.
Il clacson ha invece il risultato di alterare ulteriormente il bovino che si volta nuovamente e mi guarda con il muso infastidito, diciamo pure incazzato.
Suono, risuono sino a quando il contadino che le due vacche stavano ammirando mi dice di riprovarci, che  sono buone. Pur non essendo totalmente d’accordo col pastore ci riprovo e riesco nell’impresa e in pochi minuti raggiungo il passo e imbocco la provinciale per Parazzuolo.
Poco prima dell’abitato di Sbarbaro mi fermo per osservare cinque grossi cinghiali che pasturano tranquilli su di un prato dall’altra parte del fiume: domenica sera, al mio ritorno verso Genova saranno ancora lì. Pazzesco.
Il viaggio in direzione di Ascona prosegue tranquillo, l’auto è convalescente e non voglio tirarla, la serata è piacevole, l’aria ancora calda.
Mentre sto arrivando a Farfanosa, a pochi metri dal muso dell’auto mi attraversano la strada due piccoli di cinghiale, seguiti a ruota da altri due che non riesco ad evitare nella maniera più assoluta, l’impatto è inevitabile, ne sento il rumore sotto il telaio, controllo lo specchietto per vedere se devo fermarmi a rimuovere i cadaveri, ma vedo che uno continua bellamente la sua corsa verso l’Aveto mentre il secondo ritorna sui suoi passi, forse verso la madre che sarà sicuramente nei paraggi: a questo punto spero di arrivare ad Ascona prima possibile per non avere altre sorprese.
Quando arrivo a Rezzoaglio mi trovo davanti la corriera che sta tornando da Chiavari.
Si ferma davanti all’ex albergo Americano davanti al quale sono sedute quattro donne ucraine più o meno della mia età, fanno parte del gruppo cha ha ottenuto ospitalità nel comune avetano. Le donne osservano la corriera, salutano e sorridono: non potendo superare il torpedone aspetto.
Dopo qualche istante iniziano a scendere e ad attraversare la strada i primi bambini e bambine e le loro madri, le pelli arrossate da una giornata trascorsa al mare, i sorrisi tristi di chi per un giorno ha dimenticato le atrocità che hanno colpito la loro terra, le loro città, le loro case.
In qualche modo la cosa mi commuove e immagino queste donne mogli, fidanzate, vedove, madri che avrebbero diritto alla loro quotidianità, a ritornare alla loro vita, nella loro terra, perché quello che stanno vivendo non è la loro vita. Poi l’autobus riparte e svanisce questa strana visione di questo venerdì particolare, dieci minuti ancora e sarò finalmente ad Ascona, finalmente a casa.

Un anno dopo

Un anno, è già passato un anno da quando ci hai lasciato, ma sei ancora qui, nei miei pensieri, nei miei ricordi, sei sempre presente.
Ricordo ancora la mattina in cui mi è arrivato il messaggio da parte di Marino, lo chiamai immediatamente, non potevo crederci, poi la verità quasi grottesca, sei morto all’uscita di un ospedale per un attacco di asma mentre stavi lottando contro un bastardissimo tumore in un momento in cui il Covid mieteva più vittime che mai. Surreale a dir poco.
Vorrei dire che non passa giorno che non pensi a te, ma non è vero, vero è che ti penso spesso, non posso dimenticare un’amicizia durata oltre trent’anni, non posso scordarmi di un amico vero, un fratello maggiore.
Mi mancano le nostre serate a trafficare dietro ai computer, a parlare di film, a parlare di musica.
Mi mancano le lunghe, faticose, estenuanti giornate al lavoro, a darci conforto, ma anche a ridere e scherzare.
Mi mancano le telefonate che facevamo nel momento in cui sei andato in pensione e in cui ha preso il sopravvento il tuo ospite.
E’ passato un anno e mi manchi ed il dolore è dentro di me, come la tua assenza.
Un abbraccio Joeboy, ovunque tu sia.

Le chiavi di casa

Sabato mattina di metà febbraio, il mio lungo letargo cittadino è quasi giunto al termine, pandemie permettendo.
Ho voglia di Ascona, ho voglia di valle, ho voglia di casa, l’autunno mi spegne, ma la scintilla è viva dentro di me e basta poco perché possa riaccendersi.
Mentre salgo in auto verso la valle non posso fare a meno di ricordare quando due anni fa, in questi stessi giorni, ero ad Ascona, ne La Tana, ospite di Tommy, a festeggiare il suo sedicesimo compleanno, con il primo caso in valle di Covid che mi sfiorava, che mi passava accanto. Quello che è successo dopo non ha bisogno di spiegazioni.
Sono le undici quando arrivo in paese, il parcheggio alla Fontana Vecchia è desolatamente vuoto, neanche una macchina, solito deserto di auto e di anime.
Posteggio la Sedici e pochi minuti dopo inserisco le chiavi nella serratura, apro la porta e sono finalmente a casa.
Spalanco le finestre per fare entrare luce e l’aria tiepida di un anomalo febbraio, pigio un pulsante e la fiamma della stufa a pellet illumina la cucina, un’aria tiepida piano piano sempre più calda riscalda la stanza. La vita ritorna.
Una volta accesa la stufa, esco a fare due passi in paese a respirare aria di Ascona.
Le case aperte sono sempre di meno, così come i camini che fumano, lo vedi dalle strade vuote, lo senti dal silenzio, un silenzio che ti avvolge, sempre più forte, un maledetto silenzio.
Supero la stalla dei Varisti e arrivo sotto casa di Marietto, anche se il suo vero nome era Costantino: se ne è andato in autunno, pochi giorni prima di Natale, accudito sino all’ultimo giorno dall’amore dei figli.
Un uomo semplice e silenzioso, un grandissimo lavoratore.
Non posso immaginare quante case avrà costruito, quanti mattoni, quanto cemento, quanto caldo avrà sofferto nelle sue estati o quanto freddo nelle gelide giornate invernali in valle: anche casa mia porta la sua firma e quella dei suoi figli e non posso che esserne onorato.
Il mio cammino prosegue tra le case del Greppione, osservo la collina sopra il paese, osservo la ferita della frana che ci ricorda la terra su cui poggia il paese, la sua fragilità, le nostre debolezze.
Sotto la strada i terreni del Prato “u Prau” riposano in attesa delle semine di primavera.
Quando arrivo nella piazzetta del Groppo, davanti alla Caserma, il mio pensiero va alla Lodina.
Se ne è andata via in un luminoso sabato di febbraio, portata via da un male incurabile, lei, una delle pietre miliari su cui poggiava il paese, la pietra d’angolo sulla quale si reggeva la sua famiglia.
Lodina è stata una presenza fissa per tutta la mia vita, dalla mia prima estate al mio sessantesimo inverno. L’ho vista moglie, madre e nonna, contadina, allevatrice, ne ho sentito i canti al mattino nei miei risvegli. L’ho visto piegata nel suo orto, tra le verdure e quei fiori che tanto amava. La ricordo la domenica, in terrazza, a riposare, a gustare quegli impagabili attimi di riposo o fare due passi lungo lo stradone, a godere del silenzio e forse di una insperata solitudine.
E la ricordo a messa, nei canti, a suonar le campane, a scandire il tempo, il tempo di Ascona, quel tempo che non sarà più lo stesso, quel tempo scandito dalle stagioni che ci hanno portato via due guardiani del paese.
La mia passeggiata prosegue lungo lo stradone: quando arrivo al baraccone del povero Mario intravedo sulla mia sinistra una figura che mi osserva e fugge immediatamente, è un capriolo, anzi no, un drappello di quattro caprioli in avanscoperta verso il paese. Mi sento un eroe ad averne fermato l’avanzata, ma credo che gli basterà attendere la notte per poterlo invadere.
La mia giornata in terra d’Ascona prosegue leggera, un salto a Torrio da Massimo e Barbara, una visita a Tommy a vedere le sue manze e ad osservarne la passione nell’accudirle, la cena con gli amici a Villanoce. Piccoli momenti che mi mancavano, che danno un senso ai miei giorni.
E’ ormai notte quando faccio ritorno ad Ascona, nessuna luce ad illuminare le finestre delle abitazioni, solo le fioche luci dei lampioni a rischiarare le vie deserte del paese, il tempo di salire con la macchina al posteggio ed i fari dell’auto illuminano la figura di un capriolo sull’aia di casa, ecchelà, l’invasione è cominciata. Ma ho le chiavi di casa, il mio rifugio sicuro.

P.S.
Questo post era pronto da alcuni giorni, ma un pò per pigrizia, un pò perche qualche parola non mi suonava bene, e non mi suona ancora, facevo fatica a pubblicarlo.
Rileggendolo ci sono termini come
invasione, eroe, avanscoperta, rifugio che in questi giorni molto particolari potrebbero suonare strani e fuori luogo.
Se urto la sensibilità di qualcuno me ne scuso anticipatamente.

Il doloroso esistere

Il dispiacere più grande
è il tuo pensiero,
saperti lontana,
sapere di te,
avere incrociato la tua vita,
avere attraversato i tuoi giorni,
i tuoi mali.
Il dolore più grande
è un amore finito,
il pensiero di non poterti più amare,
il tuo pensiero,
in ogni minuto,
in ogni istante.
Il dolore più grande passerà,
ma oggi c’è un fantasma nelle mie notti,
è un doloroso esistere.

scritta ad Ascona nel settembre 2013.
Buon compleanno.

Ciao Natalie

Non ricordo da quanto tempo non pubblico i miei pensieri, non ne ho idea e sinceramente non importa.
Non so il perché, ma non trovo una ragione  per scrivere, di me, delle mie escursioni, dei cazzi miei. Do la colpa alla pandemia, cosi come altri la darebbero ai vaccini, forse tutto questo periodo ha spento dentro di me le mie passioni, i miei interessi, il sacro fuoco della scrittura, forse è vero, forse no, forse è solo un periodo, che passerà o magari anche no, non so e ripeto, non importa.
Non importava sino a stamattina, sino a quando non sono sceso in laboratorio da Mario e mi ha detto che ieri te ne sei andata, cosi, all’improvviso. E’ stata una botta e la mia zattera ha rischiato di capovolgersi, si, perché la tua morte è stata l’onda più grande di tante altre piccole onde.
Da quanti anni ci conoscevamo? Dieci, quindici, eri entrata nella mia vita in silenzio, grazie a Cioppi, con Stefano, il tuo compagno, una coppia strana, lui con le sue fisse, le sue passioni, quasi manie, e tu, la sua compagna, intelligente, spiritosa, colta, ironica, seria, malata, già, malata, con quella malattia subdola che ti aveva aggredito e che tu combattevi, in silenzio, dignitosamente.
Non ricordo quante serate abbiamo condiviso con te, Stefano e Cioppino come affettuosamente chiamavi Gianluca. Tutti momenti bellissimi, in cui tu sapevi sempre cosa dire, sapevi come ascoltare ed intervenire, ma mai una volta, dico una, in cui tu abbia parlato della malattia, di quella maledetta malattia che accompagnava i tuoi giorni, mai una volta in cui tu ti sia pianta addosso, e ne avresti avuto tutte le ragioni. No, non era nel tuo stile, tu ascoltavi gli altri e li aiutavi, era la tua missione, era la tua forza.
Adesso posso solo sperare che la terra ti sia lieve e tu possa trovare la pace dopo tutti questi anni di guerra con il male. Per Stefano, per Cioppi, per me, sarà dura comare il vuoto che hai lasciato dentro di noi. Buon viaggio Natalie.

Lame

Lame nel mio corpo,
aghi nella mia mente,
punte acuminate nel mio cuore,
mi rotolo percorso dal tuo pensiero,
mi contorco nel tuo ricordo,
il mio corpo lacerato dal tuo esistere
nella mia esistenza senza scopo.
Vorrei non pensare,
vorrei non ricordare,
vorrei non avere vissuto,
vorrei non avere toccato le tue mani,
che sento, che sfioro, che sogno,
vorrei non avere incrociato i tuoi occhi
che mi penetrano come le tue parole
mentre sulle labbra mi resta il sapore delle tue labbra,
amaro come il fiele della memoria,
visione onirica,
tra sogno e gioia,
felicità improvvisa
ed un vortice di follia
in un angosciante lontananza,
alienanti parole
e mortali silenzi,
penetranti silenzi,
lame che tagliano l’anima
e le tenebre che tornano a calare.

scritta a Genova nel marzo 2014

Altri pensieri di venerdì notte

Ascona, venerdì notte. Il campanile sta battendo le undici.
Sono appena salito in camera dopo aver visto un’ora abbondante di Propaganda Live, il mio cibo per la mente. Sono arrivato in paese verso le nove e mezza, un tranquillo viaggio in autostrada e lungo la Forcella con un fondo stradale quasi civile, alla Fontana solo le auto di Marco e Gianfranco, nessun altro, magari chi voleva venire è stato dissuaso dalle previsioni, magari no.
Dal mio letto sento i rumori della notte asconese e se non fosse per il gorgogliare della fontana del Groppo sarebbe un silenzio assoluto, assordante ed è proprio ciò che amo di Ascona, il silenzio, i profumi, le notti stellate. Domani dicono che pioverà, ma poco importa, ciò che importa è essere qua, vivere questo momento.
Non ricordo da quanto tempo non scrivevo un post, un mese, due mesi? Non contiamo le poesie, sono dei riempitivi. Eppure qualche gita l’ho fatta, niente di che per intenderci, ma avrei potuto scrivere di una bellissima gita alla Valle Tribolata o della salita da Quinto al monte Fasce oppure di quella da San Martino al Forte Ratti, ma non l’ho fatto, è come se questa maledetta pandemia avesse inibito la mia voglia di scrivere, di pensare, di programmare il futuro, forse la stessa inibizione che mi vieta di uscire la sera a fare due passi o fare un giro in auto. Forse perché penso che questa non sia vita, sono solo pillole di libertà condizionata, il coprifuoco alle dieci, ora alle undici, mi salva il fatto di poter salire in valle e vedere il mio paese, i miei amici, ma quando eravamo in fascia arancione non si poteva. Non so, sinceramente non so che sarà, non so che dire o che fare, pensandoci bene non ho neanche più fatto fotografie, solo qualche macro e non ho più fatto escursioni sui miei monti, cazzo, come mi manca quella sensazione di libertà che provo quando cammino nei boschi e sono solo, circondato dalla natura e gli occhi si riempiono di bellezza, le orecchie dei suoni del bosco e tutto lo stress, tutti i pensieri evaporano. Già, mi mancano da morire, ma torneranno. Torneranno nuove escursioni, nuove fotografie, nuove emozioni da provare, nuovi pensieri di un venerdì notte.

25 aprile

“Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte. Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.“

Piero Calamandrei: Discorso pronunciato all’Assemblea Costituente nella seduta del 4 marzo 1947

Fonte: https://le-citazioni.it/autori/piero-calamandrei/resistenza/